Valorchives

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  1. dany the writer
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    Aurelios sussultò. Si abbassò in ginocchio, spianando l’arma e portando subito l’indice alla scocca del suo grilletto. Un boato sopraggiungeva da sud.
    Il vox di Tiber salmodiò un lungo segnale di Via Libera, subito ripetuto dall’operatore sul loro canale di squadra a onde-corte: «Ping positivo, state calmi. È dei nostri.»
    Rasoterra rispetto alla Provincialii, una sagoma affilata e appuntita stava per sorpassarli. Immobile dov’era, Aurelios aguzzò la vista; il nuovo arrivato era inclinato sul suo asse, e il suo regime di volo sfiorava il super-sonico.
    «Woh-oh-oh!»
    Era grigio e azzurrino, con ali tagliate a lama di spada e una prua puntuta. Si raddrizzò cinque secondi prima di superarli, solo per imbardare in ambo i sensi e passare oltre. I suoi commilitoni sullo Hypaspista scossero i pugni, gridando entusiasti.
    «Vai! Vai, vai, vai!» urlò Tiber, alzando il proprio Accatran in segno di saluto. Sirio scoccò un pristino, preciso saluto militare all’indirizzo del caccia, pur facendo caso a che non durasse molto. Il pilota non l’avrebbe comunque potuto vedere.
    Jason s’issò per stringere la bandiera issata sulla prua del suo carrarmato. Per stupida che potesse sembrare, e quanto li rendeva dei bersagli, era un’ancora di salvezza in casi come quelli. Sia il Severan che gli aurelici avevano molti mezzi e pezzi d’equipaggiamento in comune ai loro.
    Il fuoco amico non era mai troppo lontano.
    Hahàva si batté un paio di colpi sullo spallaccio, mentre Zhì alzò due dita, come a volersi mettere in posa per un auto-scatto.
    «Ah, un GY-Hurahan...»
    «Yuraghan», scandì Ièn. «Si dice Yur...»
    Hahàva attivò il suo collegamento: «Chiudi la bocca, Libri!»
    Due sibili calpestarono il suo commento, sciabolando a mezz’aria dopo essersi staccati dalle ali del jet d’attacco aria-terra. Schizzarono oltre il suo profilo, all’orizzonte occidentale, lasciandosi alle spalle striature di scintille bianche e grigie. Il velivolo virò di rientro, innescando i post-bruciatori lungo un’ascendente curva stretta che, in pochi secondo, lo portò a ritornare nella direzione dalla quale era venuto.
    Li sorpassò in ritorno pochi istanti dopo, oscillando di nuovo. Molto più in lontananza, verso nord-est, dei boati accesero l’orizzonte. Due puntini luminosi, perlomeno quelli visibili dalla loro posizione, s’accesero e creste di fumo cominciarono a salire verso il cielo.
    Le esultanze ripresero ancora più forti, salutando i bersagli del jet con pugni agitate e grida. Aurelios si scoprì a ghignare sotto il passamontagna. Un attacco dell’Aeronautica Imperialìs era, nove volte su dieci, un buon segno; voleva dire che avevano le spalle coperte, qualcuno vegliava su di loro e aveva a disposizione i calibri auto-propulsi, i missili aria-terra e le munizioni pesanti.
    Ben presto, il rombare del jet scomparve dal cielo.
    Le creste di fumo erano cresciute, lì lungo l’orizzonte occidentale. Ripercosse i propri passi fino allo Hypaspista e si arrampicò sullo scafo. Afferrò una delle maniglie di sicurezza, affiancandosi allo scudo balistico della brandeggiabile.
    Intento a scrutare, Jason registrò il suo ritorno con un cenno del capo. Scavalcato il bordo, Aurelios si addossò al lato interno, spostando la mitragliatrice. Si piegò sulle ginocchia, sganciando un paio di binocoli magnificanti da un allaccio in cuoio.
    Tornò in piedi, alzando il binocolo perché fosse in linea d’aria con i suoi occhi. La scheggia-cogitator al suo interno s’interfacciò con il suo HVD-Visr, allungando la sua vista. Solo uno dei due incendi era a portata, però. Il più vicino, che cresceva avviluppandosi attorno ad una massiccia autocisterna. Bruciava furibonda, spingendo in alto un continuo vomito di fumo nero.
    «Ma allora ce l’hanno una pompa...»
    «Fammi vedere un po’...»
    Disconnesso il binocolo dal proprio visore, Aurelios lo passò al capo-carro. Con l’indice della sinistra gli indicò dove guardare. «Lì, vedi?»
    «Sì… che cretini, così allo scoperto...»
    Sbattendo le palpebre, Aurelios si guardò intorno. Le fiamme l’avevano abbacinato, ma non era quello il problema; l’autocisterna era stata colpita mentre cercava d’inserirsi in una strada secondaria, il cui casello ora ardeva tanto quanto. Quell’area era bloccata; i Severan si sarebbero mossi per investigare, ammesso che non fossero già a conoscenza dell’attacco aereo.
    «Ci dobbiamo muovere», esordì scavalcando il bordo della cupola. Attraversò il fianco dello Hypaspista in scivolata, spingendosi sull’asfalto con un colpo di reni. Si stava preparando ad attraversare la strada, verso il gabbiotto, quando alle sue spalle la torretta del carrarmato si animò con una nenia metallica; si stava orientando alla volta dell’autocisterna in fiamme.
    Dai posteriori tubi di scappamento fuoriuscì un doppio, addensato sbuffo di promethium usato. «Abbiamo il motore in caldo», gli disse Jason, sganciando la sicura della brandeggiabile. «Quindi vedete di fare in fretta, prima che qualcuno ci veda.»
    «Ricevuto.»
    Scattò al gabbiotto. Si affacciò, tenendo una mano sulla soglia. Zhì stava spingendo la manovella dell’alimentazione a dinamo, mormorando un fiotto di imprecazioni.
    «Come sei messa?»
    «Questo stupido affare ha meno ram di mia nonna.»
    Ram? «In minuti, Zhì.»
    Lei lasciò la manovella all’opera della destra, indicandogli il monitor principale con l’indice della destra. Una barra di stato la dominava, ma era scritta in caratteri Haronici. In cerca di un dettaglio utile, Aurelios aggrottò la fronte.
    «Lo schermo è diventato blu, Zhì.»
    «Di nuovo?!» Lasciò la manopola e si chinò sul monitor, sferrandogli un colpo. La videata blu sfarfallò via, rimpiazzata dal ritornare della barra di caricamento. Da 48% era appena passata a 51%.
    «Minuti, Zeta. M-i-n-u-t-i.»
    «Dieci, almeno.»
    Aurelios si ritrasse dalla porta e la sua mano scattò all’impugnatura dell’Accatran. «Fai in cinque. Anzi, no: tre.»
    «Non dipende da me, è questo cogitator che risale al millennio scorso!»

    Disegnando una doppia curva a elica, la corsia di decelerazione scendeva di quindici metri. Un secondo posto di blocco delimitava l’ingresso all’arteria subalterna, che poi proseguiva dritta verso occidente. Arretrato rispetto alla seconda sbarra c’era un parcheggio libero, coperto dalla stazza della strada. Era irto di autovetture abbandonate, ma non c’era anima viva.
    Sulla destra della guardiola inferiore, invece, la strada costeggiava un marciapiede alberato. Al di là, alcuni moduli abitativi si delineavano non troppo in lontananza, alle spalle di semplici, modeste recinzioni di ferro a rete.
    In caso d’attacco, non sarebbero stati dei ripari efficaci.
    Lasciò Ikaròs e Sirio a coprire Zhì mentre quest’ultima continuava a copiare i file della batteria di cogitator del gabbiotto e, con Hahàva e Ièn al suo fianco, entrò nel camminamento pedonale che portava al piano inferiore della strada.
    Accelerò il passo, sentendo i propri passi echeggiare. Abbassò la testa per non sbattere contro l’architrave. Il pavimento era un piano zigrinato di metallo, sul quale ancora c’erano delle macchie di pioggia. Acqua di ristagno, con ogni probabilità. Aveva piovuto prima del loro sbarco a Chernobasa. Ne scavalcò una con una buona falcata, accostandosi alla ringhiera esterna ad arma spianata.
    Nessun ostile in vista, da quella parte.
    Appeso tra due sbarre di sostegno, non più di tre metri più avanti rispetto a lui, c’era un pannello di controllo. Lo segnalò ai suoi due compagni e accelerò il passo. Lo raggiunse e s’abbassò su di un ginocchio, spingendo il calcio del proprio Accatran sotto l’ascella.
    Di riflesso controllò lo stato della cella energetica, annuendo soddisfatto alla vista della spia verde. Fin lì, tutto bene.
    «Ièn?»
    «Ci sono.» Il tiratore scelto s’affacciò sul pannello, gettandosi il las-fucile a tracolla. Pigiò il pulsante d’accensione e lo schermo, prima del tutto nero, si ravvivò in pochi attimi, presentandogli una schermata d’orientamento.
    Aurelios la sbirciò dalla sua posizione: era scritta in alfabeto Haroniko, con tutti quegli strani caratteri che usavano e li facevano suonare un po’ troppo ubriachi.
    Schioccando la lingua compiaciuto, Ièn fece un passo indietro: «Chyz, ma che bello. Questo aggeggio funziona ancora...»
    «Non chiamarla, Libri!», sussurrò Hahàva sul canale a onde corte.
    «Guastafeste...»
    Non ha tutti i torti. Squadrò il circondario da sinistra a destra, in cerca. Considerando l’attacco aereo appena concluso, i Severan potevano mobilitare servo-teschi o altri droni. Oppure inviare delle pattuglie, se ce ne erano in zona.
    Tutto poteva accadere.
    Dopo aver controllato la strada al di sotto del camminamento, Aurelios si riportò in piedi. Assestò bene le mani lungo il suo las-fucile e, di nuovo, spazzò l’area sottostante e avanti a lui, scorrendo da un estremo all’altro con passaggi lenti, metodici; al di là della maglia formata dalle barre di sostegno, la vista da lì scendeva sull’altro tornante della strada. Appena oltre quello, c’era un tratto di subalterna asfaltata. In fondo, sul ramo destro, spuntavano più delineate le case con i loro recinti.
    Era il caso di portare lo Hypaspista laggiù, così da dargli un po’ di copertura contro gli assalti di eventuali incursori alati. Alzò tre dita, tenendole sospese per un breve momento. Spinse il pollice contro il palmo due volte e riportò la mano all’astina dell’Accatran. Possibili civili in avanti, arcata dalle Ore Tre fino alle Ore Sei, usiamo molta cautela.
    L’ultima cosa che volevano, al di là di prendersi un servo-assalitore suicida addosso, era infliggere ulteriori disgrazie a quegli sfortunati. Maledetti aurelici bastardi, loro e i Severan!
    Scalpicciando, Hahàva lo superò e gli diede un colpetto sulla spalla; continuò per sei metri, arrestandosi dietro ad una bullonata colonna di sostegno. Ci s’impuntò contro, sporgendosi prima a destra e poi a sinistra, in cerca di possibili bersagli. Si ritrasse, appoggiò un ginocchio sul pavimento e gli comunicò a gesti un Via Libera, Nessun Ostile.
    «Ièn, vai pure.»
    Il tiratore scelto dardeggiò con lo sguardo al pannello di controllo. Sul fianco esterno, sopra ad una manichetta, era impressa la runa del nucleare. Subito accanto, un’etichetta srotolava una mezza infinità di incomprensibili dati in Lingva-Technìs.
    Avvertimenti e rischi, probabilmente. Evitare una vicinanza prolungata, non manomettere l’alimentatore senza essere stato formato e quindi autorizzato dal Culto di Marte, non masticare i cavi...
    «Grazie, Omnissiah, per le batterie atomiche...», canterellò tra sé e sé. Ah, allora era proprio come in Marconia, laggiù nella Frangia Orientale. L’atomico non deludeva mai.
    «Ci stai capendo qualcosa?»
    «Stando a quel che mi dice...» borbottò Ièn picchiettando con l’indice su di un’icona pulsante. «Ci troviamo a Proartjomskaya Via-Staz.»
    «Buono a sapersi.» Ma perché avevano nomi così impronunciabili? «Ma più conciso. Ti dice qualcosa che ci è utile?»
    «È un pannello informativo, sergente, non un registro demografico.» Arretrò, restringendo la videata con un colpetto d’indice e medio. La loro posizione, in realtà quella del pannello, lampeggiava tenue sotto un percorso rettilineo e lungo, che andava da una fermata dopo dello Zavtacamoil fino all’inizio della Pronvincialii. Si avvicinò, inginocchiandosi dietro alla cornice di bronzo del pannello.
    «Quindi, se seguiamo questa subalterna...»
    Ièn piantò il dito sullo schermo. Seguendo il tracciato, lo spostò verso il bordo sinistro del pannello. «Sì, ma siamo scoperti.»
    Hahàva si fece sentire sulle onde corte: «Come sulla Provincialii, insomma.»
    «Grossomodo. Di contro, saremmo più in basso», commentò il tiratore scelto, sporgendosi all’esterno. Il suo visore si polarizzò, passando da uno scuro verde oliva ad una completa tonalità di nero. «Più difficili da individuare, ma colpire qualcuno sulla strada sarebbe un gran casino.»
    «Chiaro. Deviazioni utili?»
    Ièn batté indice e medio sulla coscia e Aurelios s’irrigidì. Accucciato dietro la ringhiera della parete, piantò l’indice libero sul pavimento, tracciò un circolo due volte e poi ci picchiettò sopra con il medio. Dov’è, se hai individuato?
    Ièn si distanziò dal pannello, passandogli accanto a spalle basse. Si fermò alle spalle della quarta colonna di sostegno e ci si addossò con lo zaino, accostando il proprio Accatran di precisione al petto.
    «Lo giuro sul Trono, se sono di nuovo dei ratti...»
    Pantegane…
    Ièn tamburellò con il piede sulla zigrinatura e pian piano si sporse, piegandosi su di un ginocchio. Si appoggiò al pavimento per avere equilibrio, inforcando l’arma contro lo spallaccio. Allineò il puntatore all’occhio, attraverso il visore, stringendo il grilletto senza, però, tirarlo.

    Ecco, sì.
    Un ronzio.
    Veniva da oltre la ringhiera, ma non era alto e acuto. Ovunque stesse andando, il servo-teschio si muoveva a lento regime.
    Affiancando il tiratore scelto, Aurelios accennò ad Hahàva il cancelletto di ferro che tagliava in due il percorso pedonale. Lei ci puntò contro la propria arma, poi l’abbassò. Colto il messaggio, scosse la testa tra sé e sé e ci si incamminò incontro, stando bassa e lenta.
    «Zhì, come sei messa?»
    «Ho quasi tutto.»
    «Buono.» Aurelios deglutì. «Abbiamo compagnia. Riferisci a Jason, digli di scendere tra un minuto.»
    «Ricevuto. Vi mando il mio?»
    «No, tienilo sulla strada.»
    «Capito.»
    Il servo-assalitore emerse dalla penombra. Era un comune modello blindato, con una luce fissata tra le mandibole e una piccola mitragliatrice a nastro issata lungo la mascella sinistra. Stava risalendo la strada, scandagliando il percorso con movimenti continui e fluidi.
    L’icona di Ièn si rianimò: «Bersaglio in vista...»
    All’approcciarsi di Hahàva al cancello, il servo-teschio s’immobilizzò. I suoi occhi elettronici ebbero un guizzo, puntando in alto. Sbatté le palpebre e le lenti passarono da una tinta onice ad un color carminio, a segnalare che aveva attivando la visione infrarossi.
    «Ièn!», scandì Aurelios, lanciandosi in avanti con uno scatto che rimbombò sul pavimento. Si tenne sul fianco, così da non invadere l’angolo di tiro del commilitone. «Annichiliscilo!»
    L’Accatran del tiratore brillò, esplodendo due dardi di luce rossa. Il servo-teschio scartò in basso un mezzo secondo prima sottraendosi al primo colpo, che esplose contro il metallo sprizzando una colata di scintille. Il secondo dardo lo raggiunse presso l’orbita destra, che esplose in un fiotto di schegge di vetro, circuiti tranciati e lapilli incandescenti.
    Uno scatto metallico rimbrottò nella galleria pedonale e la sua mitragliatrice aprì il fuoco; tuffandosi a terra, Aurelios imbracciò il proprio las-fucile e rispose al fuoco, tirando il grilletto. Sopra alla sua testa, una raffica di calibri leggeri sgranò contro il pannello di controllo. Rimbalzarono a terra, tintinnando acuti tra gli schiocchi di frusta esplosi dal suo Accatran.
    Ièn scartò a sinistra e il bordo della colonna, appena abbandonata, esplose in svariate nubi di marmo e roccia polverizzata. Spazzò l’area avanti a sé con il fucile, riportandolo in posizione di tiro: un lampo rosso sgusciò fuori dalla canna, riverberando uno strappo supersonico a mezz’aria. Il servo-teschio incassò il colpo, gemendo una litania di statica. Entrambi i suoi occhi esalavano serpentine di fumo grigio; senza più un sistema di puntamento a guidarle, la torcia e la mitragliatrice si persero a tracciare ghirigori in giro, senza alcuna precisione.
    Aurelios si alzò. Imbracciò l’astina del suo las-fucile, allineando il puntatore al drone accecato. Tirò il grilletto una, due e poi tre volte. Dalla calotta cranica del drone esplosero scintille e fiammelle e, roteando su se stesso, precipitò a terra.
    Rimbalzò su di un gradino, seguito dal ticchettio di un martelletto d’innesco rimasto senza munizioni da armare.
    Scattando al cancelletto, Aurelios lo raggiunse nell’attimo in cui Hahàva piantò un colpo di laser a bruciapelo contro la serratura.
    Il lucchetto saltò fuori dagli innesti, rimbalzando sul pavimento; caricando il colpo, Aurelios sferrò un poderoso calcio contro le sbarre. V’impattò contro di piatto, mettendoci dietro tutto il suo peso, e il cancello si spalancò, andando a sbattere con fracasso contro la fotocellula rilevatrice a destra. Con Hàhava al seguito, il sergente lo scavalcò in volata.
    Il maledetto trillava i suoi rantoli, lì dov’era precipitato. «Piccolo bastardo...», borbottò piantandogli il piede sulla tempia. Spinse con forza, spappolandolo contro il metallo del gradino.
    «Potevamo prendere la scheda-dati...»
    Cazzo, è vero. Ha ragione. «Ah, sì.»
    «Non ci hai pensato.»
    «No...»
    Hahàva spazzò via con il piede i resti del servo-teschio. «Capita. E adesso?»
     
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