Valorchives

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    920px-OrdinatusHervara



    1
    Dei combattimenti in Obscvrvs




    Capitolo I-A
    Aurelios Markhairena




    +++Segmentvm Obscvrvs
    Hera-Amiir Sector

    Espansione di Zaqqurava
    Sistema Stellare di Hervara

    Hervara IV-B, Mondo-Civilizzato
    Continente di Invyyere

    Portal Danòrra, 205 chilometri SO da Negemyn
    M42.Y022+++



    Sferragliavano lungo la Provincialii Via M.49 da prima che sorgessero le due albe.
    Distaccati come parte dell’avanguardia, procedevano stando sotto i venti chilometri orari. Come aveva detto Hahàva già un paio d’ore prima, se fossero andati un po’ più lenti si sarebbero ritrovati ad andare in retromarcia.
    Aurelios sogghignò tra sé e sé, poi spostò il peso dell’Accatran dal braccio sinistro al destro. La compagna di squadra non aveva tutti i torti.
    Considerando la loro lentezza nel procedere, era più o meno improbabile che riuscissero a guadagnare distanza sui Severan.
    Il che non era per forza un male.
    «Avrò il culo a quadrato quando scenderemo da questa carriola...», borbottò Sirio, accovacciato sul copri-cingolo sinistro. Si cercò di sistemare alla meglio, spingendosi indietro con un colpo di reni. Aurelios si strinse contro la cupola per lasciargli un po’ di spazio.
    Zhì alzò gli occhi dal suo cogitator. «Potevo vivere senza questa yanphò...»
    «Nah!» Aurelios le diede un calmo spintone sullo spallaccio, spingendola a ridosso della bassa cupola dello Hypaspista. «Sappiamo che sei gelosa del suo culo.»
    «Oh, sì!», sghignazzò lei, scalciando per allontanarlo. Tornò sullo schermo, abbassando i suoi occhietti stretti dalla strada al monitor. «Sirio, fai una cosa.»
    «Qvod
    «Alzati!», gli rispose Zhì. Dall’interno della cupola del capo-carro, Jason inarcò un sopracciglio. Aurelios gli offrì una scrollata di spalle e lui tornò a scrutare la strada, distesa davanti alla prua dello Hypaspista, dal mirino della brandeggiabile.
    «E resta in piedi, ey. Non possiamo permetterci che ti si rovini il culo.»
    Il mio è meglio!
    In ginocchio sul ciglio del copri-cingolo destro, Hahàva abbassò la testa ridendo. «Oh, per una volta sono d’accordo con Occhietti.»
    «Vai a farti fottere, spiga...»
    «Tu prima di me», la rimbeccò Hahàva, girando il suo Kantrael Pattern per controllare in che stato si trovasse la cella energetica. Dopo un breve controllo, tornò ad inforcarne il calcio sotto l’ascella. Con la mano libera scoccò un mezzo saluto militare a Sirio. «Ad ogni modo, dobbiamo salvare il Culo dell’Imperivm
    «Lo prenderò come un complimento!»
    «Lo era!»
    «Gente...» Zhì disse, lasciando il suo cogitator alla sola mano destra. Allungò la sinistra all’impugnatura della las-carabina, ma non strinse il grilletto. «Ci siamo.»
    Aurelios annuì. Accostò l’anulare alla levetta della sicura, pronto a disinnescarla. Gli ultimi bollettini dell’Aeronautica Imperialìs non avevano dato la presenza di ostili in zona, ma non si poteva mai essere troppo sicuri.
    Considerando che i cieli erano contestati…
    «Ostili?»
    Zhì scosse la testa. «Nessuno. C’è un rottame, però.»
    Sirio appoggiò una mano al copri-cingolo, pronto a scendere da un momento all’altro. Si guardò attorno, annusando l’aria un paio di volte. «E c’è odore di bruciato.»
    Un incrocio a T giaceva davanti al loro VPIC. Jason schioccò la lingua e passò dalla brandeggiabile al cannocchiale telescopico binato, abbassando la testa per appoggiare gli occhi alle lenti.
    «Confermo il rottame. Sessanta metri.»
    Defilato rispetto all’aiuola che tagliava il centro dell’incrocio, c’era un relitto annerito. Era un carrarmato, anche da lì non ci si poteva sbagliare. Il crepitio delle fiamme scricchiolava in sottofondo e si faceva più solido man mano che cresceva l’odore di bruciato.
    Aurelios occhieggiò Jason, che lasciò il cannocchiale per alzare una piccola cornetta Vox. «Qui Valor Vang-Primvs, plvs. Abbiamo una situazione.»
    Dall’altro capo della comunicazione crepitò una risposta. «Vang-Primvs, ti riceviamo forte e chiaro. Che situazione? Passo.»
    «Relitto. Corazzato.»
    «Nostro o loro?»
    «Loro.»
    A prima vista, era un Chimedon Kronus/Garon-Pattern. Il taglio era basso, con una torretta oblunga e armata di un lungo obice anticarro. Era andato a fuoco, ma non avrebbe potuto dire quanto tempo prima. Diverse ore, di sicuro. Le fiamme avevano ossidato lo scafo, svelando pennellate color ruggine dai cingoli fino ai fianchi della torretta.
    Accanto al corazzato, alcuni alberi stavano ardendo pian piano.
    «Controllate e riferite», ordinò la voce del capitano Tariq Ben Elyssa attraverso il Vox di Jason. «Se la situazione è verde-su-verde, marcate il sito per il carro-attrezzi.»
    La traiettoria dello Hypaspista cambiò all’istante, virando a sinistra per incunearsi tra diversi alberi neri e viola, al riparo da eventuali attacchi aerei. Prima ancora che i cingoli smettessero di sgranare, Aurelios era già balzato giù, atterrando a ginocchia chine in una macchia di prato basso. Slacciò il tubo contenitore del sacco a pelo e lo zaino da campagna, tenendosi sulle spalle soltanto quello tattico. Guardò all’Hypaspista, seguendo lo sbarcare a terra di Sirio e Hahàva.
    Liberi da pesi superflui, i tre inforcarono le loro armi e risalirono la piccola discesa attraversata dal loro mezzo, tornando in strada. Aurelios si chinò a terra, premendo il calcio dell’Accatran contro lo spallaccio del suo gilè anti-schegge.
    Sirio prese la destra, lasciando ad Hahàva il fianco sinistro.
    Nessun movimento.
    «Ey, phràs!», gli chiamò Zhì dallo Hypaspista. Aurelios si girò, prendendo al volo un radiofaro a foggia di corta daga. Lo infilò nel cinturone e poi si alzò. Occhieggiò all’icona del Vox ad onde corte del suo elmetto, attivandolo con un battito di palpebre.
    Hahàva e Sirio lo fiancheggiarono e superarono, allungandosi verso il relitto. Ripresa la propria avanzata, Aurelios abbassò l’Accatran perché non fosse in linea di tiro con i due compagni.
    Quella per fuoco amico era una maniera molto, molto stupida di morire.
    Raggiunsero il relitto tre minuti dopo, avvicinandosi circospetti. Sirio si mosse in avanti, spazzando il fianco coperto del mezzo con scatti brevi e controllati del suo Accatran. Nello stesso momento, Hahàva scivolò verso la poppa del mezzo, pronta ad aprire il fuoco.
    «Libera!», disse Sirio, alzando un pugno chiuso.
    Hahàva s’inginocchiò davanti al portellone d’uscita, inforcando il suo Merovech-Pattern. Nessun movimento, nessun segnale, nessun suono salvo il crepitare delle fiamme. Dopo due secondi, anche lei alzò il pugno ed esclamò: «Libera!»
    Aurelios annuì tra sé e sé, quindi si mosse. Sgusciò alle spalle di Hahàva, dandole una pacca sulle spalle per allarmarla della sua presenza, prima di riunirsi a Sirio. Il suo migliore amico era chino davanti ad uno slabbrato cratere, scavato di netto nella fiancata del Chimedon. Qualche scintilla d’incandescenza bruciava ancora lungo i bordi.
    «Dorn, che cazzo di pedata...», gli venne da dire alla vista di quel foro. Sirio alzò le sopracciglia e strinse le spalle, abbassando al contempo l’arma.
    «Yvp
    «Che dici, drone?»
    Sirio si risollevò in piedi. «Sì, direi proprio di sì. E con una melta’, anche.»
    Accovacciandosi presso il foro, Aurelios lo carezzò con l’indire. Era ancora caldo. «Chyz...»
    Sirio si mosse per coprirgli le spalle. Allungò un dito alla runa d’attivazione dell’auricolare Vox ad onde corte e la schiacciò. «Conferma, relitto. Verde-su-verde; non ci sono superstiti.»
    «Nuup’», si aggunse Hahàva. Aveva lasciato la poppa e si era riunita a loro, l’arma tenuta in condizione di sicurezza. «Questi bastardi sono finiti cotti.»
    Poveracci, si disse Aurelios tra sé e sé. Sirio si chinò defilato, spazzando l’interno del corazzato con un movimento della sua las-carabina. Ritrasse l’arma un secondo dopo e sbuffò attraverso il passamontagna indossato sotto l’elmetto.
    Aurelios scoccò un cenno ad Hahàva, che annuì. Sotto lo scalda-collo, ne era sicuro, stava sogghignando alla vista di Sirio piegato in avanti.
    «Quello è davvero il Culo dell’Imperium, Sirio.»
    «Staremmo lavorando...»
    «Mmmh-hmm!» Lei allungò l’indice al puntatore ausiliario montato sul suo elmetto e lo cliccò con un colpetto. «Ecco, foto ricordo per le notti solitarie. Ora sono una donna contenta.»
    Lasciandoli divertire, Aurelios si guardò intorno. Due Severan, con l’uniforme rossa delle truppe regolari e la lorica semplice addosso, erano riusciti a lasciare il veicolo e giacevano a pochi metri dai suoi cingoli. O l’onda di pressione li aveva spappolato gli organi interni, oppure il risucchio gli aveva mandati in asfissia.
    Quale che fosse stato, non era stato un buon modo d’andarsene.
    Rovesciò il più vicino sul dorso. Era un uomo, giovane come poteva esserlo lui stesso. Pallidino, con una corta zazzera di capelli color paglia sbiadita.
    Gli erano rimasti gli occhi aperti.
    Hahàva deglutì guardando altrove. «Chyz, povero bastardo...»
    «Già.»
    Aurelios gli forzò le palpebre in basso. Se una Tonaca del Ministrorum l’avesse visto, si sarebbe preso una reprimenda, ma non erano loro a fare i conti con i morti. Le prediche erano facili quando non si vedevano i loro risultati.
    Gli infilò la mano sotto la camicia, rovistando in cerca della targhetta identificativa. Tirandola su, piegò la metà asportabile fino a strapparla e la palleggiò sul palmo.
    «Thaddeus Dmori.»
    M41.Y999…
    L’altro Severan defunto non era molto più lontano e Sirio l’aveva già raggiunto. Gli strappò la targhetta asportabile e l’alzò per guardarla meglio. «Sergio Astal.»
    «Anno?»
    Prima di rispondergli, Sirio sbuffò. «Zero-Zero-Quattro.»
    Hahàva schioccò la lingua con astio. «Sacra Madre-Terra Puttana...»
    Gli altri separatisti erano irriconoscibili. L’esplosione del drone li aveva liquefatti all’interno del loro Chimedon. Per ricostruire le loro identità servivano dei Genetist e non aveva senso tirarli fuori dal relitto. Ci avrebbero pensato quelli del carro-attrezzi.
    Piantando la daga radiofaro nel terreno, Aurelios ne portò la levetta sul glifo d’attivazione. Raccolse una manciata di fili d’erba e li palleggiò sul palmo. Lunghi e intirizziti, erano viola scuro e venati di rosso. Che razza di natura c’era su quel sasso maledetto.
    «Beh’, direi che qui abbiamo fatto.»
    Hahàva si tirò giù lo scalda-collo e si accese una sigaretta. «Non credo ci sia nulla che possiamo prenderci da questo catorcio.»
    Sirio si avvicinò a lei, che gli offrì la sigaretta già accesa.
    «Che taccagna...»
    «Le ho finite, idiota.»
    «Ah!», disse lui restituendole la sigaretta dopo un paio di sbuffate. «Scusa, allora.»
    «Ma va’, phrà. Tutto a posto.»
    Il tramestio dello Hypaspista li interruppe. Era tornato in carreggiata e veniva verso di loro.



    Angolo delle triviaaaah
    Yanphò: informazione, discende alla lontana da "info". Probabilmente un residuo anglo-sassone nell'Elysiano.
    Phrà/Phràs: BRO/BRUH.
    Qvod: Cosa? Sirio sa parlare in corretto Alto Gotico, essendo di nobiltà.
    Chyz: pronunciato ChA-Iiz. E' quel che rimane dell'esclamazione "Jesus".
    Nuup'/Yvp: Nope e Yep, rimasugli linguistici.
    Hypaspista: sostanzialmente è una scatola di latta un BMD4.


    Edited by dany the writer - 4/2/2024, 14:02
     
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    Il tramestio dello Hypaspista li interruppe. Era tornato a macinare in carreggiata. Lasciando alle proprie spalle brevi e stinte sbuffate di promethivm esausto, veniva loro incontro.
    «Jynts!» Aurelios scoccò un cenno, indice e medio uniti e tenuti bassi, all’indirizzo del loro VPIC. Sirio e Hahàva si scossero, inginocchiandosi guardinghi ai suoi fianchi.
    «Plus, vi abbiamo in visuale», disse l’ultima, aprendo il canale Vox a onde-corte. «Qui abbiamo fatto. Niente da segnalare.»
    La statica di sottofondo venne meno, soprascritta dalla voce di Tiber. «Ricevuto, H1. Veniamo a prendervi. Salite su in fretta, passo.»
    «Ricevuto, plus plus.»
    Se non fossero stati in missione, con poco tempo per fare tutto alla bella e meglio, avrebbero dovuto trainare quel malconcio trabiccolo in un tempio-officina dell’Adeptvs Mechanicvm per i restauri e le santificazioni di rito.
    Hahàva abbassò la testa. «Taxi Hervara.»
    «Il servizio è scadenza, il trasporto è scomodo e non c’è rimborso in caso tiri le cuoia.»
    Sirio allargò le braccia: «Phrà, scusa... se muori come fai a chiedere un rimborso?»
    Eh... «Ah, beh’, non so. Tipo, possono chiederlo i parenti?»
    Lui tornò ad impugnare l’Accatran, scuotendo la testa. «Perché, pensi di averne?»
    «E che ne so.» Aurelios strappò una manciata di fili d’erba e la gettò da parte. «Pensavo che tu fossi mio fratello. Conta?»
    Ridacchiando tra sé e sé, Sirio strinse le spalle. «Forse...»

    Cigolando e negnando, lo Hypaspista continuava a guadagnare strada sul loro spiazzo. Era ancora troppo lontano perché fossero visibili, ma Aurelios sapeva dei suoi acciacchi e delle cicatrici che portava. Sopra alla gonna destra, una raffica di calibri blindati aveva lasciato impressa una bella catena di lividi ammaccati. Il loro impatto aveva spinto la corazzatura all’interno e sbrecciato la pintura, rivelando l’acciailuminium rinforzato sottostante.
    Il fatto che in qualche modo non fossero riusciti a sfondare e tritare le tre anime dell’equipaggio all’interno era stato un mezzo miracolo. Non era un mezzo pensato per stare a lungo sul ring e scambiarsi jab, ganci e portanti con i ragazzi più grandi e cattivi di lui.
    Il fronte sinistro della torretta era stato annerito dall’impatto di una granata a frammentazione, mentre uno dei fanali posteriori era scoppiato durante il loro sbarco.
    Danni riparabili.
    Da soli, li si poteva anche dire irrilevanti. Tutti assieme, facevano del loro Hypaspista un veterano malconcio e rappezzato alla meglio che, tuttavia, continuava a tirare avanti.
    «Taxi Hervara...»
    La bandiera issata in poppa dietro la cupola sbatteva, un po’ pigra, avanti e indietro, spiegazzata da un vento freddo. Annunciare la propria posizione era un’idiozia bella e buona, ma i soldati del Severan e i loro alleati usavano molto arsenale in comune con quello della Guardia Imperiale.
    O avevano installato produzioni proprie con qualche Mechanicvm complice, oppure avevano trovato e messo le mani su qualche arsenale abbandonato. La Crociata aveva fatto lo stesso in Korianìs.
    Aurelios guadagnò il ciglio della strada e prese posizione, spingendo il calcio del suo las-fucile Accatran contro la spalla.
    Flesse le dita per risvegliarle e poi tornò a sorvegliare la strada. Nessuna minaccia in vista.
    Alzò lo sguardo al cielo, attivando l’ingrandimento con un colpo d’occhi. Da sinistra a destra, guardò sopra alle cime degli alberi.
    «Libera», avvisò, rilassando l’imbraccio del fucile. S’impuntò sul ginocchio sinistro, schiacciandolo contro il terreno intirizzito, per guardare poi alle spalle dello Hypaspista in arrivo. Le sue Ore Sei erano sgombre dalla presenza di droni e servo-assalitori.
    Sta andando bene, per ora…
    Il cielo rimbombò, rovesciando a terra una cascata di grezzi tremori di pressione. Soffiando un filo di fiato a denti stretti, Aurelios s'accigliò; non erano scoppi da bombardamento o artiglieria missilistica, ma macro-cannonate atmosferiche.
    Portò la mano sinistra all’astina del lanciagranate montato sotto la canna. Uno scalpiccio alle sue spalle lo allertò della presenza di Hahàva e Sirio. Si fermarono poco avanti a lui, le armi tenute in condizione di sicurezza.
    Altri rimbombi, sempre lontani.
    «Che dici, arty?», esordì Sirio occhieggiando in alto. Al sopraggiungere d’altri rimbombi, incassò la testa di riflesso.
    Aurelios scrollò le spalle. «Cazzotti in alta atmosfera.»
    «Ouph...»
    Il cielo tornò a tremare. Le eco degli scoppi attraversarono il bosco alle loro spalle, scuotendo un mare di fronde blu, viola e rosse. «Chyz, sono incazzosi stamattina...»
    Hahàva si unì al suo ridacchiare. «Che dici, hanno finito la v’dkà?»
    «Nah», scosse la testa. C’era la Tarkovyyna, con la sua squadra di supporto, a fornire copertura lassù. Varie voci di corridoio avevano detto che, chiaramente prima o poi e forse, si sarebbe mossa all’attacco per sgomberare il cielo verso Negemyn. «È impossibile.»
    «Vero...»
    Evidentemente, s’erano mossi sul serio. Buon per tutti loro!

    Lo Hypaspista continuò a stridere sull’asfalto fin quando non si fermò alla loro altezza, curvando per coprirli dal fuoco di eventuali tiratori nascosti.
    In piedi dietro lo scudo balistico della brandeggiabile cal. 55 a munizionamento transuranico, Jason stringeva in mano il cannocchiale binato.
    «Dorn», esordì alla vista del relitto bruciato, appoggiandosi con il gomito alla cassa della mitragliatrice. «È proprio sfasciato...»
    «L’avrà preso in pieno un drone.» Aurelios s’issò sul copri-cingolo e si volse, accomodandosi alla meglio nel poco spazio a disposizione. Inforcò il fucile sotto l’ascella e lo mantenne basso, sempre con la sicura innescata. Sirio arrivò per secondo e salì sul fianco sinistro, accettando la mano che Tiber, il loro specialista addestrato come operatore Vox, gli offriva.
    L’ultima fu Hahàva, dopo una spazzata di controllo alle loro spalle. S’insinuò oltre Zhì, cercando in ogni modo di sbatterle lo zainetto tattico sulla faccia. L’operatrice si lamentò a denti stretti e la spinse da parte, sbilanciandola un po’.
    Riuscendo a restare in piedi, Hahàva s’aggrappò alla torretta e si accovacciò, recuperando lo zaino da campagna, il tubo contenitore del sacco a pelo e il resto del suo equipaggiamento. Borbottii e imprecazioni attraversarono il mezzo da prua a poppa, ondeggiando con la squadra che cercava di riadattarsi dopo il ritorno dei tre esploratori.
    «Sì? Con cosa, una granata al plasma?»
    «Una melta’, penso.» E come li avevano loro, così li avevano quelli del Severan.
    «Melta, ey?»
    «È tutto bruciato, lì.»
    «Ha senso.»
    Aurelios vide Jason scurirsi in viso e tamburellare sulla cassa della brandeggiabile. Morire asfissiati o arsi vivi dentro una bara di metallo non era una bella maniera d’andarsene, certo, ma per i carristi era un’eventualità con cui dover fare i conti. Si schiarì la gola con dei finti colpi di tosse e poi sbatté il piede sotto di sé. Un tonfo, poi due. «D’accordo, riprendiamo. Avanti tutta, lì sotto!»
    Rianimato da un sobbalzo in avanti, lo Hypaspista sgranò un tramestio di cingoli e scatti ferrosi. Affondò in avanti, forzando tutti i presenti sul suo scafo ad aggrapparsi a qualcosa di solido tra improperi e bestemmie, quindi la marcia lo portò a sobbalzare in avanti.
    Molto presto, la Provincialii tornò a scorrere sotto la loro prua.
    Per un buon quarto d’ora proseguirono dritti, rumoreggiando su di una strada vuota. Pali monchi o divelti puntellavano il succedersi dei segmenti, rendendo chiaro che quelli del Severan, o forse le truppe locali durante la loro prima ritirata strategica, avevano divelto i segnali stradali.
    Dopo uno svincolo a curva larga, Aurelios udì Ièn mormorare qualcosa d’indefinito. Gli lanciò un’occhiata, trovandolo intento a squadrare una fila di autovetture abbandonate lungo il bordo destro della strada, a ridosso del recinto di sicurezza. Perlopiù, erano piccole quattro-ruote-quattro-porte, squadrate e semplici. Qualche cariage, più costosa e dal taglio aerodinamico, li faceva compagnia qui e lì.
    Non erano arrugginite. Il loro abbandono doveva essere stato recente, non più di qualche mese prima del loro arrivo.
    Chinandosi in avanti, Aurelios adocchiò una quattro-e-quattro in tinta verde mela. Il suo cofano era, più o meno, un singolo lastrone di ferro e pseudo-lega squadrato. Se ne stava in mezzo a due Trott Quaranta Key, entrambe con le portiere aperte. «Guarda, una Trablad!»
    «Incredibile», replicò Ièn. Non gli sembrava molto interessato all’auto. «Oh, una Trablad. In una colonia di Garon, poi...»
    «Dici che hanno lasciato le chiavi, Libri?»
    Sirio alzò la testa, gli occhi sgranati visibili perché aveva alzato il visore dell’elmetto integrale. «Fratello, sono utilitarie.»
    Era disgusto, oltraggio o sconcerto il suo?
    Libri, accovacciato a ridosso del rialzo della cupola, alzò gli occhi al cielo come un attore. «Si, beh’… è la roba della povera gente.»
    «Infatti.»
    «Miglior export di Garon, phrankòs
    Libri non reagì. La colonna d’auto abbandonate scivolò loro accanto e presto cominciò a farsi più piccola e distante. La strada continuava, dritta e fin troppo scoperta. Duecento metri sempre dritto, un cavalcavia ad arco offriva una delle poche insegne che non erano state rimosse.
    Serigrafate sul cemento armato, delle frecce direzionali gialle e rosse indicavano la presenza di una piazzola di sosta. Una d portava l’occhio a cadere proprio su di uno stemma pubblicitario circolare, due bande in rosso e argento che stringevano la sigla “ZAC” come serpenti.
    A pensarci, era da prima del sorgere delle albe che non avevano messo in bocca un sol boccone. L’ordine di avanzare era giunto con massima priorità, aveva detto il Colonnello, sovrascrivendo gli altri. I satelliti avevano rilevato i Severan in ripiegamento, una buona occasione per recuperare terreno.
    Ora, il mezzo mattino si stava avvicinando e, pure considerando l’assenza di indicazioni utili lungo il percorso, dovevano aver coperto una buona distanza.
    «Zevtacamoil!» canterellò Aurelios, smettendola appena si rese conto che nessun altro si era unito a lui. Peccato, ma non gli piaceva quell’umore basso. Sotto lo stemma, la classica dicitura pubblicitaria se ne stava scritta in cubitale Basso Gotico maiuscolo. La tua sosta sulle Sue autostrade!
    Jason diede una spintarella a Zhì, che alzò il suo palmare di navigazione. «Dovrebbe essere la S-11 M.49, ammesso che la mappa non risalga al secolo scorso.»
    Aurelios girò gli occhi. Quello non sarebbe stato del tutto fuori dal normale.
    «Abbiamo ordine di verificarlo o possiamo passare oltre?»





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    «Abbiamo ordine di verificarlo o possiamo passare oltre?» domandò Markhairena a Tiber. Lo specialista Vox sganciò la cornetta dall’alloggiamento e la palleggiò.
    «Io verificherei», disse Jason, posando il cannocchiale binato. «Non si sa mai.»
    «E sarei d’accordo...»
    «Ma?»
    Quarta alzò la testa: «Fermarci è un rischio.»
    Lo era anche continuare a muovere in avanti, ma non era il caso di dirlo. C’erano momenti dove farsi sentire e altri in cui era meglio che fossero i sergenti a decidere.
    Restare fermi, dov’erano in quel momento così come nel parcheggio di uno Zavtacamoil, voleva dire esporsi all’arrivo di qualche drone-suicida. Non ne avevano incontrati da quando si erano messi in moto, ma ciò non voleva dire che non fossero in zona.
    Per quanto ne sapevano, potevano essere a più alte quote.
    «Con un Hypas’ e una squadra come siamo, Aur’, non siamo proprio una ricognizione in forze» continuò Quarta, cercando una reazione da Markhairena.
    «No, chiaro.» Aurelios alzò il bordo del suo scalda-collo mimetico. «E non siamo armati per fare a pugni con avanzi sostanziosi, se capitano.»
    E su quello aveva piena ragione. Lo Hypaspista montava una brandeggiabile cal. 55 e un las-cannone con una portata di 63 mega-thule. La prima era pensata per vedersela con la fanteria. Nel complesso, non faceva un brutto lavoro, per essere un prodotto della serie Vanaheim. Non era una Draken Gladius-Pattern, ma quelle erano impegnative da reperire in giro.
    Il secondo, invece, aveva un buon serbatoio di colpi dalla sua, ma come contro-carro peccava non poco di forza e morso.
    Lo Hypaspista doveva essere leggero a sufficienza per essere portato dagli Sky-Talon o da un qualsiasi helis capace. Se fosse stato troppo pesante, sarebbe stato inutile per un’unità avio-trasportata e lanciata.
    Per compensare quella mancanza, la cupola montava due missili HK e all’interno dell’arsenale c’era una ricarica. E basta.
    Come aveva detto il Colonnello ancora in Elysia, nove volte su dieci, i corazzati erano da lasciare ai corazzati.
    Allargò le gambe, incuneando le rotule nell’incavo dei gomiti. Il las-lungo venne a premergli contro le reni, costringendolo ad una scomoda torsione. Si tolse la sua tracolla di dosso, finendo a pungolare Ièn con una mezza gomitata.
    «Ops! Scusa.»
    Ièn scosse appena la testa. Lo Hypaspista offriva poco spazio e non c’era niente da fare in merito. Urti e spinte, lì, erano più frequenti delle pallottole nemiche.
    «Nessun problema...»
    «Mmh.»
    Ikaròs spostò il las-lungo a lato, infilandolo tra l’aggancio d’uno dei drappi della rete mimetica e una fila di borsoni. Lo spinse per bene in fondo e si assicurò che fosse stabile. Assestò un piccolo schiaffo sul calcio e, soddisfatto, tornò accovacciato contro la torretta. Da presso i suoi piedi recuperò l’Accatran d’ordinanza, inclinandolo perché non finisse a puntare qualcuno dei suoi compagni di squadra.
    «Quindi?», intervenne Jason.

    Da sotto i suoi piedi provenne la voce del guidatore, di cui Ikaròs proprio non ricordava il nome. «Stare fermi costa carburante!»
    Ma almeno ne aveva uno? Sì? Forse? Ah, non era importante. Magari si chiamava Titius, oppure Caius. Era pieno l’Imperium di quei due.
    Markhairena si piantò le mani sui fianchi. «Quindi ci assicuriamo che quel passaggio sia sicuro, prima di tutto. Poi, riferiamo la situazione al comando. Se ci sono rinforzi in zona, ci muoviamo con loro.»
    Guardandosi attorno, il capocarro schioccò la lingua. «Mi piace.»
    Gli eroi morivano presto.
    E male, soprattutto.
    «Porto giù il drone...», mormorò Zhì, picchiettando sul suo cogitator portatile. Ikaròs guizzò con gli occhi in alto, in cerca del servo-teschio. Era un gioco stupido e inutile, ma gli piaceva provare a indovinare la sua posizione e direttiva d’arrivo.
    Solo, ogni volta che scommetteva in merito con Tiber, quel maledetto finiva per vincere. Aveva proprio una fortuna sfacciata.
    «Dimmi quando sei in posizione», le ordinò Markhairena, scambiandosi un cenno con Quarta. «Mandiamo avanti lui.»
    La specialista strinse le spalle. «Dhjak...»
    «Tzjak», le bisbigliò Ièn, chinandosi in avanti. «Qui dicono tzjak
    «Son la stessa cosa», disse Ikaròs.
    Ièn appoggiò le mani sulle ginocchiere. «No, però va bene così.»

    Ringhiando, le catene di trasmissione dei cingoli ripresero a scorrere. Da fermo, lo Hypaspista sussultò in avanti, mordendo l’asfalto della Provincialii Via M.49. Ikaròs strinse una maniglia di sicurezza, lottando contro l’impeto che lo spingeva in avanti.
    Riassestandosi in carreggiata, il veicolo avanzò. I fianchi della strada tornarono a scorrere, seppur lenti. Al di là dei recinti di sicurezza, strali di bosco si susseguivano in bizzarre tinte aliene. Al di là di sterrate e cartelli monchi, però, non c’era granché da vedere.
    Aveva sentito qualche voce, ancora sulla Trono; gli alberi, su pianeti come quel sasso intirizzito, erano strani perché qualcuno li aveva adattati a ricevere luci più specifiche, del tipo ultravioletto o infrarosso. Roba da Libri, più che sua.
    Lasciò il cane dell’Accatran alla sinistra, allungando l’indice alla scocca del grilletto, e con l’altra mano si strinse al pennone della bandiera issata in poppa. Allo sguardo perplesso di Ièn, Ikaròs dardeggiò con gli occhi a destra e sinistra.
    «Posa eroica, phrà
    Doveva solo trovare una Chrono-Rimembrante sperduta, e possibilmente single, e con un calendario di buone pose era sistemato per la vita.
    Sul viso dell’altro tiratore scelto della squadra avvampò un colpo di risata. «Bellissima.»
    «Raccatto tutta la phyga di questo posto, così.»
    «Sicuro.»
    Dalla prua, Hahàva sbuffò. «Non che ce ne sia tanta in giro, ey...»
    «Non sai trovarla.»
    «Senti chi parla.»
    Ora scuro in volto, Ièn inforcò il suo las’. Accostò l’anulare alla levetta della sicura, levigandola senza spingerla in basso.
    Lo Hypaspista stava rallentando.

    Dai tubi di scappamento si disperse una folata grigia, pregna di Promethium esausto, e la traiettoria del VPIC cambiò con una sterzata, lenta e regolare, sulla sinistra. Da prua salì un contraccolpo metallico, seguito dagli sbotti e dalle imprecazioni della squadra.
    Il recinto di mezzo cedette, finendo sotto il macinare dei cingoli, e lo Hypaspista avanzò defilato incontro alla colonna portante del cavalcavia.
    «Vai, vai, vai...», diceva Jason, accompagnando dei battiti con il piede alle sue parole. «Oy, riduci un po’ quei cazzo di giri! Buono! Sì, vai, vai, vai...»
    Un nuovo contraccolpo costrinse Ikaròs a stringersi di nuovo alla maniglia, lasciando andare la bandiera. Il VPIC indietreggiò d’una mezza dozzina di metri e si riallineò con una sterzata. Tornò in marcia con uno slancio brusco, puntando in diagonale verso la colonna. La sua ombra sull’asfalto crebbe, fino a dominare sul veicolo.
    Recepito un segnale da parte di Markhairena, Ikaròs diede un colpetto sullo spallaccio di Ièn e si aprì la strada fino alla poppa. Saltò giù e si defilò, prendendo il controllo dell’angolo esterno del mezzo. Posò un ginocchio sull’asfalto e con la destra estese il treppiede di supporto dell’Accatran. Si stese, incassando il calcio contro la spalla e allineando l’occhio al puntatore.
    Ién avrebbe preso il controllo dell’altro lato.
    Ronzando, il drone di Zhì planò davanti al suo angolo di tiro. Da dove Horus era venuto? Se non avesse avuto un lavoro da fare, si sarebbe alzato per strappare il cogitator dalle mani della specialista e scoprirlo.
    Horus scalzo in una valle di chiodi arrugginiti, non l’aveva nemmeno sentito arrivare. Se fosse stato un drone dei separatisti…
    Meglio non pensarci.
    Sbuffi chiodati sopraggiunsero alle sue spalle, seguito da un sussulto di giberne e di zaino. Distolto l’occhio dal puntatore, Ikaròs si guardò alle spalle per sincerarsi di chi fosse.
    Zhì, lo sguardo curvo sul cogitator di guida e navigazione, alzò un pollice per dargli il Tutto Ok e si spinse sul lato interno. Picchiettò con indice e medio sul monitor, sbloccandolo.
    «Vediamo un po’...»
    «Si chiama Yarrick, vero?» Che stupido nome! Il suo precedente servo-teschio drone, quello che era andato distrutto durante la battaglia per Chernobasa, aveva avuto un nome perfino più idiota. Lancel, o Lancetel. Una cosa di quel tipo, comunque.
    Non sapeva farci con i nomi.
    Zhì non si distrasse dalla guida. «Yorrick.»
    «Y… Yorrick?»
    «Yorrick. È di Amulet.»
    La parte alta del cavalcavia era sgombra. Salvo autovetture abbandonate, non c’era anima viva. «Ah, sì. Vero, Amulet.»
    Cosa Horus era Amulet?
    Yorrick planò oltre il profilo dell’arco, intrufolandosi nella penombra. Il suo puntatore scandagliò il pavimento, soffermandosi alcuni secondi prima di dardeggiare in alto. Scandagliò gli angoli, spazzandoli con una luce elettrica dalla tinta bluastra.
    «Merda...», sibilò Zhì, regolando il drone perché recuperasse un metro e mezzo di quota. Un secondo dopo, si stese al suo fianco, spingendo in avanti il suo las-fucile d’assalto per appoggiarcisi sopra con il braccio. «Lì, lo vedi?»
    Chiuso l’occhio libero, Ikaròs seguì l’indice della compagna di squadra. Un brillio traslucido avvampò dentro il reticolo del suo puntatore e si fermò, allungando indice e medio al grilletto.
    Allentò la presa, ricordandosi che era a diversi metri da quel rischio.
    «Yvp
    Scattata in piedi, Zhì recuperò la propria arma e si portò alle spalle di Markhairena, appostato in ginocchio un paio di metri avanti allo Hypaspista.
    «C’è un rasoio, lì.»
    «Ma porca puttana...» Un secondo dopo, il vox ad onde-corte si animò. «Gente, c’è un OEI all’ingresso. State fermi.»
    «Manica di stronzi», sussurrò Quarta. Fu lui a raggiungerlo, affiancandolo dov’era stata Zhì fino a pochi secondi prima. «Oy, Ik’’. Riesci a vedere dov’è l’ordigno?»
    Non con questo mirino. Gli segnalò di aspettare e strisciò all’indietro, raggiungendo la poppa del VPIC. Si arrampicò in cima e sgattaiolò fino al suo las-lungo. Ne agguantò il manico con la sinistra e con la destra slacciò un drappo della rete per liberarlo.
    Una delle borse ruzzolò sull’asfalto.
    «State giù!», urlarono Quarta e Markhairena all’unisono. Esposto sul fianco dello Hypaspista, Ikaròs si accucciò, alzando un braccio a proteggersi il viso.
    Non successe niente.
    Markhairena e Quarta avevano entrambi alzato il pugno. Sollevarono l’indice e, due secondi dopo, il medio. E ancora non successe niente.
    Anulare.
    Nulla.
    Mignolo.
    Nessun segno.
    Pollice...
    «Libera!», annunciò Aurelios.
    Respirando, Ikaròs si gettò in spalla la tracolla del las-lungo e scivolò giù dalla poppa, inginocchiandosi sull’asfalto. Si diede una sberla sull’elmetto, poi si portò all’altezza di Quarta e tornò a stendersi. Il sergente sospirò.
    «Hemer
    «Yvp. Me lo merito», gli rispose con un sussurro. Estrasse il las-lungo dall’astuccio e dispose il bipede di supporto, appoggiando l’occhio al puntatore telescopico. Con un colpetto del medio accese il mirino binato laser, che perforò il buio proiettando un sottilissimo, lungo strale cremisi sulla parete destra di fondo del cavalcavia.
    Dei tonfi da sinistra lo fecero sussultare. Quarta gli posò una mano sulla schiena, quindi gli fece cenno d’attendere. Sbirciò da sopra la gonna del cingolo, in cerca di Markhairena.
    «Che succede?»
    «Porta d’accesso, sinistra», scandì lui, a voce quanto più alta e nitida possibile. «Ho visuale su una donna. Civili.»
    «Dorn fottuto!»
    «Ièn!», chiamò Aurelios. Dalla sua posizione, Ikaròs lo vide orientarsi verso la porta. Abbassò il tiro dell’Accatran, ma non ruppe il contatto visivo con chiunque stesse al di là. «Ièn, ascolta. Digli di non muoversi.»
    Libri espirò, prima d’issarsi sulle ginocchia e avanzare oltre il suo angolo di tiro. Ikaròs lo tenne d’occhio fintanto che fiancheggiava il VPIC.
    «Ztiite!» disse a voce alta, lasciando andare il las-fucile. «Ztiite uu tam, oshe?»
    Ikaròs sbloccò la sicura del las-lungo. «Quindi, troviamo questo detonatore...»


    Trivia parte la II
    Dhjak: garonianismo coloniale. Può essere derivato da tak, sta per ok.

    OEI: Ordigno Esplosivo Improvvisato.

    Yorrick, Amulet: Alas, povero Yorrick. Si tratta di una citazione istruita, e Zhì ha fatto un po' di scuole, che viene da una delle tre opere dell'antico Shykspir. No, è canon. Guilliman cita Amulet, Prince Denmark in Horus Heresy. Qualcosa è sopravvissuto, ma sono alquanto sicuro che il testo sia stato preservato alla meglio e non sia compreso dal pubblico del trentesimo come del quqarantaduesimo millennio senza un adattamento.

    Hemer: Hastata ExterMEnator Retarded, team-killing moron. si tratta di un prestigioso titolo che guadagni quando, per colpa tua o per circostanze, metti la squadra nelle condizioni di andare in compagnia dall'Imperatore.


    Edited by dany the writer - 7/2/2024, 11:44
     
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    A mezz’aria risuonò un cigolio ferroso. Jason portò la brandeggiabile in linea con l’ingresso del tunnel, rilasciando una ridda di stridii. Il capo-carro strattonò l’arma per i bracci e questa, scorrendo sulle sue corte rotaie, arretrò fino a sistemarsi in posizione.
    Un tintinnio rantolò giù dal mezzo. Stava controllando il munizionamento a nastro. Più forte e secco, lo scatto a molla del sistema di sblocco si allargò, sbattendo contro le pareti di sostegno del cavalcavia. Defilato in avanti rispetto alla prua, Markhairena alzò un pollice all’indirizzo del capo-carro.
    «Libera!»
    Per ora...
    Zhì tornò in piedi e gli diede le spalle, arrampicandosi sullo scafo dello Hypaspista. Scivolò giù pochi attimi dopo, stringendo al petto una matassa di filo e un piccolo scettro di metallo. Srotolò il filo sull’asfalto, poi si stese a terra e alla propria sinistra inastò lo scettro. Inserì lo spinotto, in cima al cavo, dentro la presa di corrente e si assicurò che fosse solida con un colpo di mano.
    Dal marchingegno cominciò a sfrusciare un basso sentore di corrente. A quel punto, la specialista strinse il fondo dell’asta e lo guidò ad appoggiarsi sull’asfalto. Attese un secondo, quindi spinse in alto tre rune d’attivazione.
    Le spie luminose passarono da inerti a blu e una corona a parabola si dispiegò attorno alla testa dello scettro-auspex.
    «Status?»
    In risposta alla domanda di Markhairena, Zhì alzò il pollice. «Plvs
    Con l’auspex in funzione, avrebbero avuto qualche preavviso nel caso i Severan avessero mosso dei servo-assalitori nella loro direzione. Non era molto, ma qualcosa era pur sempre meglio di niente.
    «Perché non sento niente?» In posizione presso l’ingresso del tunnel, Markhareina spostò il suo sguardo da Ièn alla porta. Si calò la celata-HVD dell’elmetto sulla faccia e il visore si polarizzò in scuro, nascondendogli il viso.
    Ikaròs s’accigliò. Vero, non veniva alcun suono dai civili intrappolati dietro il portone. Al di là del vetro, sul quale picchiavano i pugni senza smuoverlo, le loro facce erano distorte in grida ed espressioni concitate.
    Non traspirava un solo sospiro.
    «E se fossero ologrammi?», propose Hahàva. Si portò in posizione e l’arcata d’ingresso del tunnel sfrecciò sotto il suo Merovech-Pattern. Reinserì la sicura e portò l’arma in condizione di sicurezza, la canna puntata all’asfalto.
    «Si, e se tu non fossi stupida?» Con un sussulto di zaini e giberne, Zhì si sistemò alla meglio accanto ad Ikaròs, girandosi sul ventre. Occhieggiò al suo sistema Auspex, poi torse il braccio per avere il cogitator subito sottomano. «Ci sarebbero dei disturbi nell’immagine.»
    Era sensato, ma anche da così vicino? Incassò il calcio del fucile contro lo spallaccio prima di togliere le capsule protettive dalle lenti del mirino.
    Il Colonnello gli avrebbe fatto la pelle a strisce se l’avesse riportato alla base danneggiato senza una buona ragione.
    Portò l’indice alla levetta d’attivazione e la spinse in basso. Dapprima silenzioso, il puntatore s’animo con un trillo elettronico a bassissima frequenza, che s’acquietò alcuni secondi dopo. La scheggia-cogitator interna era entrata in piena funzionalità.
    Ikaròs staccò il viso dal mirino. Stressare gli occhi prima di mettersi a cercare era stupido. «Sì, ma non se il proiettore è ai loro piedi.»
    Da nord sgorgò un tramestio di lontane onde d’urto e il tiratore scelto alzò gli occhi al cielo. Le nuvole, storte e vagabonde, erano ancora lì. Buon segno; qualsiasi cosa stesse succedendo, non era immediatamente sopra alle loro teste.
    Artiglieria navale. Spaventosa da sentire, ma tutto in regola.
    «Sono carne e ossa. So riconoscere un ologramma.»
    «Il sospetto c’è», intervenne Markhairena. «Meglio spiacenti che sorpresi.»
    Ah, ecco il buon vecchio Camp Martes…
    La loro specialista si limitò a scuotere il capo e alzare il braccio, dove portava montato il suo cogitator di guida e navigazione, all’indirizzo del servo-teschio. Con un cinguettio elettronico, il drone interruppe la sua stasi e scivolò in avanti, oltre il filo d’attivazione.
    I civili dietro la porta continuavano a sbattere i pugni sulla vetrata. Le loro bocche si muovevano, ma senza un suono dietro erano grottesche.
    Sirio scoccò un cenno a Ièn. «Avvicinati e tranquillizzali. Non fare cazzate, intesi?»
    «Chiaro...»

    Allora, dove sei?
    Il servo-teschio di Zhì era a mezz’aria, in attesa di nuove istruzioni. Prese nota della sua posizione e spostò il puntatore in diagonale. Il filo del “rasoio” era più in basso e il drone lo illuminava con una delle sue torce a fascio.
    Tra l’ombra e quel tanfo di crepuscolo che pervadeva il giorno, lì, c’era poca illuminazione. Dorn fottuto, rendeva tutto più difficile.
    «Un momento...», sussurrò sul canale Vox ad onde-corte.
    Ancora chino con un ginocchio poggiato sull’asfalto, seppur con il las-fucile ora abbassato, Aurelios sollevò il capo. Portò la mano libera alla calotta dell’elmetto, schiacciando la runa d’attivazione dell’auricolare. «Prenditi il tempo che ti serve, Ik’.»
    La voce di Ièn fece capolino subito dopo, spezzando di netto il basso sottofondo di statica: «Sì, ma diciamo non troppo...»
    Rilassò indice e medio, staccandoli dal grilletto. Li accostò alla sua scocca, distolse lo sguardo e strabuzzò gli occhi. «Perché?»
    Avanzando cauto verso la porta, il fucile all’altezza del fianco, Ièn scoccò un’occhiata al drone. Gettò il suo sguardo sul filo d’innesco, come a segnarsi la sua posizione, e si fermò dov’era.
    Ikaròs inarcò un sopracciglio; e ora che diamine gli era preso?
    Con il puntatore del las-lungo, Ikaròs della squadra misurò la distanza tra il commilitone e il filo. Un metro e mezzo, e tre erano quelli che stavano tra lui e la porta.
    Ièn non si muoveva.
    Un filo di vento attraversò il tunnel sotto il cavalcavia. Attraverso il passamontagna, Ikaròs ispirò un misto di odori, stinti dal tessuto. C’era un gusto ferroso a mezz’aria, e da lontano proveniva, assieme agli impatti, una vaga traccia di fycilene. Era di sicuro frutto di qualche colpo a lunga gittata della loro artiglieria. O quello, oppure era il lavoro dei ragazzi dell’Aeronautica.
    «Oy
    Ièn gli fece segno di aspettare. Mosse un altro passo e si piantò dov’era, immobile. La torcia laterale del suo elmetto divampò, proiettando un fascio di luce a pianta larga. La regolò con un colpetto dell’indice, stringendola ad una lama lunga e sottile.
    «Non vedo il secondo filo...»
    E quello era un buon segno. La trappola aveva un solo innesco, che la rendeva più semplice da disarmare. Il tutto ammesso di trovare il detonatore, che doveva essere lì da qualche parte, e l’unità rilevatrice. Doveva esserci un meccanismo per registrare che il filo era stato rotto e comunicare alla carica di esplodere. «Controlla le pareti e guarda dove vai.»
    «Plvs.» Continuò a procedere con fare guardingo, scoccando lente occhiate prima a sinistra e poi a destra. Quando fu del tutto oltre la soglia, nella penombra, rallentò e con l’indice segnò ai civili che stavano al di là della porta di restare calmi. «Conto sette persone all’interno.»
    Il servo-teschio ruotò uno dei suoi obbiettivi nella stessa direzione. Un sottofondo di statica crepitò a mezz’aria e Ikaròs digrignò i denti.
    «Hai acceso la termica, vero?»
    «Raggi-x», replicò Zhì con candore, stringendo le spalle contro la giacca anti-schegge. Polvere, nebulizzato di Promethium esausto e residui di strada l’avevano ingrigita ulteriormente. Tutti loro avevano un che di straccione addosso, a pensarci bene. Quale unità, impegnata ad avanzare, non sembrava malmessa? «Confermo sette anime all’interno. Non sono ologrammi.»
    Ikaròs sbatté le palpebre, staccandosi d’un palmo dall’obbiettivo del las-lungo di precisione. Ancora nessun segno dell’innesco e del detonatore. Pulì la lente con un panno apposito, che teneva nel taschino della giacca anti-schegge, quindi fece ritorno al suo lavoro.
    «Chyz, Zhì...», sussurrò Ièn sul sistema a onde-corte, «tante grazie per aver fritto i miei globuli bianchi.»
    «Quelli e le palle», s’aggiunse Tiber, dalla prua dello Hypaspista.
    «Ah, sì. Anche quelle.»
    «Che drammatico!»
    «Già», le fece eco Quarta, quasi ridendo sotto i baffi. «Di che ti lamenti? Non sono neanche tre-punto-sei roent’.»
    Ritornando in sella al mirino, Ikaròs verificò prima di tutto che la sicura fosse inserita. Lo era. Bene. Riportò Ièn nel riquadro, facendogli segno con l’altra mano che era tutto sotto controllo.
    Non fare cretinate, phrà…
    Ancora un passo, poi il commilitone si fiondò chino a terra. Il filo d’innesco gli era proprio davanti, teso come un muscolo. Nella penombra, era visibile solo se preso in controluce. Era posto a poco più di un metro e settanta d’altezza.
    «Non ci sono mine a terra.»
    Grazie alla Sacra Terra per i separatisti incompetenti! Prima di sorridere, Ikaròs sentì una spina di dubbio pungergli la nuca. Era così, oppure non ne avevano messe perché non servivano? Con un filo così basso, la trappola doveva essere stata progettata sia per mezzi che personale appiedato.

    Sempre stando chino, Ièn sorpassò il filo e avanzò di due passi in più, portandosi all’esatta altezza della porta tagliafuoco. Da una delle tasche dei suoi calzoni trasse un cilindro metallico, corto e armato in cima di una sicura.
    Accostò il pollice al meccanismo d’innesco, pronto a farlo saltare e rilasciare il contenuto all’interno.
    «E quello come dovrebbe aiutarci?», gli chiese Hahàva, rompendo il silenzio vox.
    «A dire il vero, non lo so. Sto pensando.» Posò il cilindro sull’asfalto e, orientato all’indirizzo della porta, prese a tamburellare sulla cassa del suo Accatran. Guardò a destra, incrociando lungo la parete con la torcia innestata lungo l’elmetto.
    «Però so che è una trappola.»
    «Qiqtà, Ièn», esordì Quarta. A passi lenti era tornato sullo scafo dello Hypaspista. Si muoveva, ora, per avvicinarsi a Jason, che se ne stava dietro lo scudo balistico. «Certo che è una trappola. Zhì, hai una mappatura del cielo sottomano?»
    «Sì, ma è di prima. Adesso ho solo il radar.»
    «Tienilo acceso», gli disse Markhairena, spalleggiando Quarta. Registrò la posizione del primo con un dardeggio del capo e tornò rapido a tenere d’occhio la porta incassata nella colonna. Ièn lo superò, camminando piano e guardingo.
    Esalato il fiato che aveva nei polmoni, Ikaròs allineò l’occhio al puntatore. Rintracciò il servo-teschio, tornò alla posizione del filo d’innesco e lo studiò con un passaggio orizzontale, metodico e lento. Pareva leggero fil di ferro, del tipo che uno strattone abbastanza forte avrebbe potuto strappare in due. Quale che fosse la trappola, lì, non doveva innescarsi da sola per un colpo di vento più brusco della norma.
    «Sei sicuro sia un rasoio?»
    «Beh’, a occhio la conformazione è quella.»
    Non erano parole molto rassicuranti, a dirla tutta. Ma se davvero era un rasoio, finché non spezzavano il filo d’innesco non rischiavano niente.
    Approfittando della luce che gli offriva Ièn, Ikaròs abbassò il suo tiro al fondamento della parete di destra. I blocchi di cemento armato scorsero davanti a lui, regolari e noiosi. Su ciascuno era impresso un simbolo, una spiga di grano dentro un goniometro. Uno stemma di gilda, oppure un'insegna corporativa.
    Con ogni probabilità, i costruttori non avevano idea che il loro edificio si trovasse lungo la linea del fronte. E non serviva nemmeno che lo venissero a sapere, dopotutto.
    Il marcatore toccò l’ultima fila di blocchi, quella innestata nella carne della superstrada provinciale.
    Sbatté le palpebre.
    «Ièn, alza la torcia.»
    «In che direzione?»
    «Ore Quattordici, in alto. Non più di mezzo braccio all’interno.»
    Il commilitone eseguì, portando la torcia a centrare la sua luce su di una crosta nella parete. Chiuso l’occhio sinistro, Ikaròs regolò il focus del suo puntatore con un giro di rotella. La crespa s’ingrandì, delineandosi in maggiori dettagli.
    C’era un’ombreggiatura umida, lì.
    «L’ho trovato.»
    Schioccando le dita con fin troppo entusiasmo, Aurelios gli offrì un pollice alzato. «Marcalo.»
    «Plvs-plvs, luci accese in tre… due… uno...»
    Il puntatore laser piantò un singolo tondino russo sulla macchia umida, non più di mezzo metro dalla base dell’incasso nell’asfalto. In linea d’aria, era diagonale rispetto ad una grata di scolo. Tenuto il puntatore in posizione per alcuni secondi, Ikaròs si staccò dal fucile e sbatté le palpebre. Grazie al bipede di supporto, il marcatore era fisso in posa.
    Vi fece ritorno alcuni attimi dopo, partendo dalla macchia umida e trovandone il centro esatto. Lì la parete era un po’ grattata. Non era in precisa linea d’aria con il nastro, ma quello non era fondamentale.
    «La grata di scolo sarebbe troppo ovvio, ma...»
    Guidò il marcatore ad illuminarla. Legato ad una delle ghiere, sottile non più di un millimetro, c’era un doppio circolo di filo d’argento. Un angolo retto lo legava al filo centrale, ma chi l’aveva arrangiato si era preso la briga di metterlo in penombra, lontano da possibili colpi di luci.
    Non abbiamo a che fare con coscritti, qui…

    «Valor-Com, qui Vang-Primus. Valor-Com, chiedo replica, priorità vermillion.»
    Ikaròs ingollò un sorso dalla sua borraccia. Dopo tutto quello scrutare e guardare, gli era salita in gola una sete bruciante. Ad ogni modo, quella trappola era fin troppo architettata per essere opera di due o tre squadre di fantaccini scalzi.
    Non era invisibile, sì. Per come l’avevano nascosta, un’unità attrezzata a dovere avrebbe potuto individuarla e disarmarla, oppure passare al di là e continuare sulla propria strada. I civili erano stati intrappolati per costringere eventuali soccorritori a rimanere bloccati, tagliati fuori dalla copertura del cavalcavia dal filo d’innesco.
    Era tutto per rallentarli?
    «Vang-Primus, qui Valor-Com», rispose la voce di Yeren, la specialista operatrice vox della squadra comando del colonnello. «Chiediamo una reiterazione. Vermillion, confermate?»
    «Sì, confermo vermillion.»
    La comunicazione s’interruppe per due secondi, dopo i quali Yeren tornò a farsi sentire: «Ricevuto e recepito. Avanti, Vang-Primus.»
    «Valor-Com, abbiamo una situazione», scandì Tiber, digitando una stringa di pulsanti sulla tastiera del suo vox portatile. «OEI, lato destra del cavalcavia PODA/205-SO.»
    «Ricevuto, Vang-Primus. Inoltriamo posizione e situazione. Altro?»
    «Abbiamo dei civili bloccati sul lato sinistro. Sette. Quattro donne, due bambini e un uomo anziano.», rispose Tiber, occhieggiando al cavalcavia di fronte alla prua dello Hypaspista. «Sono stati chiusi dall’esterno. Siamo allo scoperto. Fornite istruzioni, plvs
    «Vi inviamo dei genieri e del supporto. Mantenete la posizione corrente.»
    «Ricevuto, Valor-Com. Manteniamo il sito.»
    «Sì. Lasciatelo solo se soggetti ad un attacco che non potete respingere.»
    «Ricevuto. Status del cielo?»
    Tremori lontani squassarono il fronte nuvoloso, puntellato e dispersivo, che placcava i raggi dei due soli di quel sasso infreddolito.
    Al di là delle nubi, il lento orbitare di Hervara-IVA stava insorgendo massiccio. Non era mai stato prima su di un pianeta con una co-orbita gemella, a dire il vero. Gli faceva senso vederlo, così grande e simile eppure lontano. Durante il giorno, Hervara-IVA giganteggiava su tutto il resto.
    «Status positivo. Abbiamo un reconcerebrus a portata, vi dovrebbe passare sopra a breve. ETA due minuti e quindici.»
    «Ricevuto. Faremo il possibile per non abbatterlo.»

    Il reconcerebrus fu preciso. Arrivò due minuti e quindici secondi dopo, sfrecciando sopra al cavalcavia. Il ruggito del suo turbo-jet si stinse in eco sempre più lontane, dirette in virata prima a nord-ovest e poi di ritorno a sud.
    Come sparì, così Tiber prese a palleggiare il comunicatore del Vox.
    «Vang-Primus, abbiamo registrato la vostra posizione.»
    «Ricevuto», scandì Tiber in risposta. «Disposizioni sul procedere?»
    «Attendete l’arrivo degli artificieri per il disinnesco dello OEI. Passo e chiudo.»


    Reconcerebrus: è un drone-servitore, non dissimile in spirito da un servo-teschio. Il corpo è quello di un drone ad alta velocità, di solito con dell'armamento per ingaggiare eventuali intercettori nemici, ma la CPU di bordo è fornita da un cervello umano. Ora, possono essere cervelli clonati a catena così come piloti veterani che vengono...recuperati per continuare a servire.

    Qiqta: banane. Qiqta viene da chiquita. Come sia arrivato nell'Elysiano basso gotico è uno spiegone che non sto a fare in dettaglio, ma funzionalmente è un rimasuglio linguistico del 32esimo secolo che ha subito uno scivolamento semantico, passando dall'indicare il brand all'indicare il prodotto in sé.

    Hervara-IVA/IV-B: Hervara IV è un sistema di orbite binate. Con pianeti rocciosi non sono comunissimi, ma è una situazione non tremendamente dissimile da quella che sussiste in Trappist. I due pianeti hanno orbite reciproche l'uno attorno all'altro mentre orbitano attorno alla stella. Questo causa mareggiate di notevole ferocia, ma di notte si possono vedere le luci dell'altro pianeta.

    Vermillion: dii solito, vermillion è il massimo grado d'allerta.
     
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    Capitolo I-C
    Yašir Ilastass, 67esimo Guardia di Sol




    +++Segmentvm Obscvrvs
    Hera-Amiir Sector

    Espansione di Zaqqurava
    Sistema Stellare di Hervara

    Hervara IV-B, Mondo-Civilizzato
    Continente di Invyyere

    Portal Danòrra, 208.2 chilometri SO da Negemyn
    M42.Y022+++


    Disposte a sinistra dell’ingresso al piano terra del grande magazzino, due robuste fila di lastre di marmo prendevano polvere. Erano state abbandonate lì chissà quando, in uno stato che non poteva non trovare a dir poco penoso.
    Se i suoi uomini le avessero trovate abbandonate alla rinfusa, rotte o deturpate da qualche saccheggio, sarebbe stato più comprensibile. Triste, sì, ma almeno accettabile.
    Erano tutte pronte per la spedizione.
    Imballate con precisione e allineate, sempre con precisa diligenza, in omogenei gruppi di quattro sui loro bassi pallet da carico, attendevano invano sotto al sorgere dei due soli di quel mondo.
    I muletti da carico e scarico erano stati lasciati nei loro stalli, ancora connessi via Rites USB alle colonnine elettriche municipali. L’ultimo login annotato e salvato nella memoria dei loro registri di servizio risaliva, ormai, a più di quattro settimane prima.
    Dei Civis-PWLF, invece, non c’era alcuna traccia. I Severan, maledetti separatisti, dovevano esserseli presi e portati via. Stringendo la destra alla tracolla del suo fucile, Yašir sospirò; era probabile che li avessero già trasformati in Sentinel improvvisati, armandoli con qualche las-cannone e montandoci delle piastre per corazzarli. Avrebbe fatto lo stesso se fosse stato nei loro panni.
    S’incamminò, risalendo la lunga linea di materiale abbandonato. Strinse il bavero del giaccone mimetico da fatica, alzandolo contro le guance per proteggerle dal morso del vento. Era freddo e pungeva quando la corrente s’alzava, ma aveva un sapore particolare; sapeva di umido, e di legno ancora vivo e di semplice, brulicante prato.
    In un certo senso, era vivo. Il vento della Sacra Terra era sì più caldo e denso, ma aveva con sé solo note d’incenso, oro e roccia.
    Scacciò quei pensieri e s’inginocchiò presso uno dei pallet. Agguantò le cinture di sicurezza e tirò a sé, facendo scorrere l’etichetta. Incastonata in un pannello di plastica, questa scivolò fin alla sua mano. La sollevò per leggerla.
    Gettò a terra l’etichetta e si rialzò. Chiunque egli fosse, mish’r Hyeronimo V’ Thuul di Augusta Macharia non avrebbe ricevuto tanto presto le sue mensole da bagno. Se aveva i soldi per permettersele, però, probabilmente non aveva bisogno. Spazzò con il dorso della mano la testata d’una delle lastre, sparpagliando un mezzo dito di polvere e qualche foglia secca.
    Sorrise tra sé e sé a leggere il nome inciso sul marmo. Era stato tracciato in nitidi caratteri Alto Gotici, ma aggraziati da un buon corsivo.
    Isabel.
    Guardando meglio quelle lastre, di base rosate con leggere sfumature d’oro, verde foglia e azzurro in motivi marini, Yašir si ritrovò a scuotere la testa. Poteva sbagliarsi, ma da quel che vedeva, quelle avrebbero dovuto essere un regalo.
    Che peccato. Presumo che ne farà a meno…

    Il suo auricolare s’animò, pungendogli il timpano destro con una lama di statica. «Qa’yat, mi ricevete?»
    Schiacciò subito la runa d’attivazione. «Avanti, Joris.»
    Un tremolio di scarico attraversò la linea. Più si allontanavano da Chernobasa e più le comunicazioni perdevano di qualità. Aveva già riportato il fatto al Comando, ma non era dell’idea che questo avrebbe agito subito.
    Al momento c’erano altre priorità.
    «Qa’yat, abbiamo una situazione», riprese Joris. Enfatizzò quell’ultima parola, senza urlarla o dare evidenti segni di malcontento. «Potete rientrare?»
    Lontani boati rintoccarono nel cielo. Occhieggiando sopra di lui, calcolò che provenissero da qualche parte a nord. Artiglieria a lungo raggio, missilistica o balistica che fosse. Oppure era stata una salva di cannoni esplosa da parte del loro supporto atmosferico.
    Ad ogni modo, restare a lungo allo scoperto non era una buona idea. «Affermativo, sono subito da te. Puoi dirmi di che si tratta?»
    «Sì, mio signore. Abbiate un momento di pazienza...»
    Lasciò le lastre al loro abbandono, girando i tacchi e tornando indietro sui suoi passi. Palleggiò l’elmetto qualche volta sul palmo della mano, ascoltando i suoi bruti rintocchi. A breve avrebbe dovuto cambiarlo, perché cominciava a mostrare tutte le sue cicatrici. Sul versante sinistro della cupola, un dardo di blaster sfrecciato a bruciapelo aveva impresso una striatura nera e spellata sul metallo, oltre a strinargli il sopracciglio e lasciarlo abbagliato per due giorni.
    Un fiotto di schegge, dovute allo scoppio di una granata a frammentazione, aveva sdentato il fianco destro, incidendo passaggi ad alta velocità sulla pittura mimetica verde scura.
    In ultimo, giù a Chernobasa, un colpo di daga semi-potenziata gli aveva lasciato una concussione spaventosa per settimane, quasi spaccando in due tronconi l’Aquila Imperiale innestata in cima, un centimetro al di sopra dell’icona del suo grado d’ufficiale.
    La Sacra Insegna era sopravvissuta, l’emblema del suo rango no.
    «Joris?»
    «Sono qui, mio signore», disse il suo domus-rappresentante. «Una squadra di Elysiani del 164º ha trovato dei civili intrappolati.»
    «Civili?», che fosse ringraziato l’Altissimo sul Trono d’Oro della Sacra Terra, quella era sempre una bellissima notizia. Civili! Non solo voleva dire portare in salvo qualcuno, togliendogli dalla linea del fuoco, ma potevano sapere che fine avevano fatto gli altri. O quantomeno, potevano formulare qualche ipotesi su dove i Severan li avessero deportati.
    «Sì, mio signore. Sette anime.»
    «Meglio di niente.» Un huz’yàh per i ragazzi di Qirie El’ena. Da quel che aveva sentito, quelli del 164º erano stati tirati giù dalle brande e spediti in avanti, come avanguardia, non appena si era sparsa la notizia che i separatisti stavano arretrando dalla periferia di Chernobasa.
    Ormai dovevano essere esausti.
    «Abbiamo una linea diretta con loro?»
    «Mio signore...» La statica insorse, costringendolo a staccare l’indice dalla runa dell’auricolare. Strinse gli occhi e scosse la testa, poi spinse di nuovo il pulsante.
    «Joris?»
    «Mio signore, è meglio di persona.»
    «Capisco.»

    Vox-Jumbler e Scrap-Code. Qualcuno stava cercando di aprirsi un varco nella loro rete di comunicazioni e il buon senso di Joris era da seguire.
    Yašir agganciò il suo elmetto alla cintura e continuò a camminare a grandi falcate, rientrando presto nello sprazzo che giaceva al di là del cancello d’ingresso al magazzino. Durante la notte, gli uomini e le donne della sua compagnia l’avevano trasformato in un campo-base operativo e che ora pulsava e ronzava a pieno regime, spandendo un brusio d’elettronica e un alveare di voci.
    Scartò a destra per non incrociare l’angolo di tiro d’una delle due postazioni di tiro Tarantula montate al limitare dell’area di carico e scarico. I soldati impegnati a gestire quelle armi lo salutarono con dei brevi cenni del capo.
    Replicò al gesto, abbassando la testa per non farsi vedere. I saluti era meglio riservarli nelle retrovie. Lì dov’erano, a così poco dalla prima linea, potevano fornire un bersaglio utile a possibili tiratori scelti nascosti chissà dove.
    Lasciò le sentinelle al loro dovere e s’addentrò nella sottile penombra del magazzino. Aprì un taschino del giaccone e tirò fuori un pacchetto di sigarette marca Maurat. Se ne accese una e la inforcò tra i denti, respirando a pieni polmoni la prima fumata.
    Il cuore cerebrale della loro compagnia era stato parcheggiato in diagonale, alle spalle di due spesse colonne di sostegno. Ricoperto da una solida blindatura, l’Oculum Vigil gravava sul passare di qua e di là dei soldati della compagnia. Le sue paraboliche erano orientate verso il cielo e una foresta di cavi-dati si allungava dai suoi fianchi, connessa ad una mezza dozzina di batterie di cogitator da campo e generatori ausiliari.
    Dallo scafo pendevano ancora le reti mimetiche montate durante la marcia notturna. Toglierle era secondario, e il fatto che erano scure aiutava con la penombra. Ne scostò un lembo per entrare, salendo i gradini d’acciaio zigrinato.
    Chino davanti al tavolo tattico in centro all’autocarro corazzato, Joris si raddrizzò al suo ingresso. Un rapido irrigidirsi attraversò le altre anime a bordo.
    «Riposo.»
    Come ebbe detto quella parola, tornarono ai loro doveri senza proferire parola. L’aria condizionata appesantiva l’atmosfera con un sapore d’incenso e bronzo caldo, ma il motore attivo spandeva un buon tepore. Di certo era meglio del vento che soffiava all’esterno.
    «Allora, Joris? Che cosa abbiamo?»
    «Dieci minuti fa abbiamo ricevuto...», il suo secondo si volse a prendere una stampata, staccandola da un rotocalco incassato nella parete. La dispiegò sul tavolo e toccò un glifo, attivandone il proiettore olo-lithografico interno.
    Il testo si palesò a mezz’aria, verde su sfondo nero. «Ecco qui. Una richiesta di supporto da parte di Vang-Primus, che ci è stata passata dal loro Vang-Com. I Compagnia, Battaglione Valor.»
    Sì, erano proprio i ragazzi di El’ena. «Civili, hai detto.»
    «Sì, mio signore.»
    Joris si ritrasse e batté il pugno contro un bottone incarnato in una delle gambe del tavolo tattico. Il piano s’animò, proiettando ad un palmo d’altezza uno spaccato della Provincialii Via M.49. Preso uno stilo, Joris indicò un punto rosso sul panorama. «Qui.»
    «PODA/205-SO.»
    «È un cavalcavia a doppia corsia. Stando ai valorini...»
    «Sul serio?»
    «L’ho sentito usare riferendosi a loro, mio signore.»
    L’avrebbe lasciata passare, questa volta. Il suo occhio cadde sul thermos del caffè. Se ne versò tre dita in una tazza di ferro e ne ingollò subito un sorso. Era nero e amaro, ma almeno era caldo. «Ad ogni modo, perché ci chiamano? Vogliono un trasporto per sgomberare i civili?»
    «Sì, signore. Ma i civili sono intrappolati.»
    Posò la tazza. «Pardon?»
    Joris scosse il capo. «Non sanno chi sia stato, ma sono chiusi al di là di una porta tagliafuoco. La stanza, riporta Vang-Primus, è all’interno di un campo d’insonorizzazione. E c’è un OEI che li blocca dall’avanzare oltre.»
    Un Ordigno Esplosivo Improvvisato. «Di che stiamo parlando?»
    «Parrebbe un rasoio, mio signore.»
    Cingendosi il mento con la mano, Yašir rilesse il rapporto da cima a fondo. Per quale motivo insonorizzare una stanza dopo averla messa al di là di una trappola esplosiva? «Hanno localizzato l’innesco di questa trappola, tanto per cominciare?»
    «Sì. Gli occorrono dei genieri per bonificare l’area e liberare i civili.»
    «Ed è quello che avranno. Organizzo una squadra.»
    «Il cavalcavia in questione ha delle telecamere. Non saranno certamente d’altissima qualità, è una provinciale delle colonie, ma dovrebbero avere dei filmati in memoria. Il Comando ha ordinato che siano recuperati per essere soggetti ad analisi.»
    So dove va a finire, qui…
    «E vogliono che il recupero sia documentato e fatto da un grado affidabile, non è così?»
    «Mio signore...»
    «Va bene, va bene», lo zittì alzando la destra. «Andrò di persona con i genieri. Se il comando vuole questi filmati, vale la pena.»


    Trivia time
    Qa'yat: capitano in vernacolare terrestre. Yašir e Joris, come gli altri elementi della loro compagnia e del loro reggimento, sono terrestri. Nel terrestre ci sono diverse sonorità vagamente orientali.
    Domus-rappresentante: è un servitore di casata che accompagna il proprio signore in ogni evento. Siccome Yašir è stato richiamato, Joris è stato coscritto a sua volta come secondo e aid de camp.
    Oculum Vigil: è un auto-carro a dodici ruote attrezzato per fare da campo base e unità di comunicazione, coordinamento e mappatura a distanza. Si, insomma, è un TEWS imperiale.
     
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    Quaranta minuti dopo, il battistrada scorreva alle loro spalle. Le sei ruote pneumatiche del Taurox Terran-Victoria Pattern rullavano a pieno regime, ringhiando al tarmac sottostante. Joris manteneva una crociera veloce, consultandosi di frequente con l’operatore dell’Auspex di bordo, lo specialista e navigatore Markus, per mantenere sotto controllo il cielo.
    Forse sarebbe stato più sicuro scegliere un veicolo cingolato per quella missione di scorta, ma arrivare dagli Elysiani con lo stesso avrebbe richiesto più tempo, lasciandoli a lungo a rischio di venire intercettati da qualche drone.
    E per quanto fossero ancora al limitare della loro zona di controllo, non era il caso di rischiare un impatto. I separatisti amavano lasciare sorprese esplosive in giro, a dimostrazione del fatto che non avevano buttato al vento tutte le lezioni della Tactica Imperialìs. Quel genere di strumenti costava poco e causava un buon danno, rallentando il nemico.
    Se si fosse trovato a vestire i loro panni, avrebbe fatto lo stesso.
    Spense il mozzicone della sua terza sigaretta accesa dall’inizio di quella faccenda nel posacenere e si sporse per dare un’occhiata allo specchietto retrovisore del conducente; il blindato degli artificieri era ancora lì a seguirli, quindici metri alle loro spalle.
    Alla sua richiesta di un team di specialisti per disinnescare il rasoio, il comando locale gli aveva fornito una squadra del 38° Reggimento dei Marines Jerushiti, i più vicini al sito dell’ordigno, e poi si era rifatto vivo con l’ordine di mobilitare e incontrarli a mezza via.
    Se dovevano fargli da scorta fino all’OEI, un Taurox non era proprio la scelta migliore: la sua corazzatura era relativamente leggera, per quanto qualcosa fosse sempre meglio di niente, mentre il cannoncino binato montato sopra alla prua avrebbe potuto al più spaventare un Chimera.
    Non era il caso di discutere gli ordini che venivano dai piani di sopra, ma se si fossero presentati dei problemi, il mezzo degli Elysia era il più pesante e cattivo a loro disposizione. E quella squadra di poveri disgraziati aveva un IFV Hypaspista.
    Sempre meglio di quello che hanno loro…
    I Jerushiti li seguivano a bordo di un pick-up tattico, uno Yervan Ypsilant 4x4 mimetizzato. «Dici che gliel’ha comprato la Crociata, o...»
    Joris grugnì qualcosa d’indefinito e cambiò la marcia, scalando d’una in basso. Stavano arrivando a destinazione, quindi. «Colletta di qualche civile impietosito, mio signore.»
    «Andiamo bene!»
    «Già...»
    Qualche anima pia gli aveva montato sopra delle lastre d’antischegge sullo scafo e una sei-canne antiaerea in cima al tettuccio. In pratica, per spedire quel rottame alla gloria dell’Omnissiah sarebbe stato sufficiente sputargli addosso.
    Yašir tornò con la schiena appoggiata al seggiolino e tirò fuori il palmare di missione. Come nota nel Log ufficiale, la scorta a degli artificieri per rimuovere un OEI non era materiale da medaglia, ma perlomeno non gli richiedeva di tallonare le unità in avanzate a portata di tiro del nemico. Le faccende faccia a faccia era meglio che le sbrigassero loro, piuttosto che le anime di un reggimento di supporto.
    Al di fuori, la Provincialii Via M.49 si allungava tra rostri di xeno-vegetazione rossa e blu e il modesto grigiore dell’asfalto. Come riportato da altre unità, i segnali stradali erano stati divelti. Registrò la locazione di un’uscita secondaria bloccata da un autobus abbandonato e inserì la nota nel Log. Avrebbe fatto richiesta perché un Tankamar fosse mobilitato dal Comando Locale e portato in zona per rimuoverlo.
    Ignorando le vetture abbandonate ai bordi della carreggiata, però, l’arteria era pressoché spoglia. Le grandi e munifiche strade della Sacra Terra erano molto più ricche e addobbate.
    Si alzò e, agguantando una maniglia di sicurezza, scavalcò con un passo il suo zaino da escursione operativa. Il soffitto era basso, tagliato in centro da una linea di piccoli, rettangolari pannelli a bassa luminosità.
    Doveva rimanere chino per non sbatterci contro. Incrociò per l’anticamera del vano di carico, appoggiandosi al seggiolino dell’operatore Vox di bordo. Martiniis registrò la sua presenza con un cenno del capo, poi settò la levetta della ricezione sul Canale Operativo schermato.
    «Loc-Com Chernobasa, qui Escop Primaris. Ricevete?»
    In seguito ad un cinguettio acuto, l’altoparlante trasmittente si rianimò: «Qui Loc-Com Chernobasa, riceviamo in chiaro.»
    Prima di riattivare il comunicatore a lunga distanza, Martinis digitò un codice sulla pulsantiera della sua stazione. «Loc-Com, potete verificare la copertura del mio segnale?»
    «Richiesta ricevuta e compresa», gracchiò l’altoparlante. Gli fece seguito un contratto acuto, elettronico e pungente.
    «Attendo risposta, Loc-Com Chernobasa
    Dopo un secondo di pausa, l’acuto si ripresentò. Al suo termine, il Vox-operatore Martiniis si massaggiò le tempie.
    «Escop Primaris, confermiamo che il segnale è coperto.»
    «Buono a sapersi, Loc-Com
    «Attendiamo il prossimo rapporto tra quindici minuti. Qui Chernobasa Loc-Com, passo e chiudo.»
    «Plvs
    E quella era già una questione chiusa. Posò una mano sullo spallaccio di Martiniis, poi si rivolse all’abitacolo di guida dell’APC. «Com’è il cielo?»
    Seduto a destra di Joris, Markus allungò una mano al pannello di controllo dell’Auspex di bordo. Lo tenne fermo quando un sussulto scorré sotto di loro, poi schiacciò un bottone con il pollice. Lo schermo si rianimò, mostrandogli uno sfondo verde sul quale girava un’onda di controllo bianca. Che bel sollievo era vederlo sgombro.
    «Nominale.»
    «Nessun ping?»
    «Per ora no, signore.»
    Yašir mandò giù un grumo di saliva e soffocò un finto colpo di tosse. Appoggiò la testa allo schienale in metallo del suo sedile, in seconda linea rispetto a conducente e navigatore, sbuffando un sospiro fuori dalle narici.
    Per ora. Per positivo che potesse sembrare, non era affatto quello che avrebbe voluto sentire. Fuori dal perimetro di un campo-base era una definizione molto, molto pericolosa.
    Tastò la custodia della videocamera ad alta definizione. Era ancora lì, avvolta in una rimanenza di quell’odore di plastica e tessuto nuovo.
    «Continua a tenerlo d’occhio, intesi?»
    Markus rispose con un cenno della testa, quasi sovrascritto dalla figura dell’elmetto, prima di fare ritorno allo schermo e al suo cogitator palmare.
    «Prosegui su questa strada.»
    «Non è che ci siano deviazioni interessanti...»
    Il navigatore e specialista esalò uno sbuffo basso e stanco. Come Joris, indossava la panoplia anti-schegge a placche sbalzate sopra alla mimetica da fatica, e presso i suoi piedi aveva una corta las-carabina Kantrael d’ordinanza. La spostò dal lato destro al sinistro, alzando un ticchettio di scatti metallici che rimbombarono per un momento dentro l’abitacolo blindato, appoggiandola in sicurezza al pozzetto rinforzato del freno semi-autonomo.
    Un sussulto sbilanciò Yašir, che s’impuntò e rafforzò la sua stretta sulla maniglia.
    «Che cazzo di strade!», sbottò Markus scuotendo il capo. «Ecco che succede a farle fare ai campagnoli, Terra la stramaledetta...»
    «Sì, be’...» Non aveva assolutamente tutti i torti. «Cerca di non farti sentire.»
    «Campagnoli!»
    «Markus?»
    «Sì, signore.»

    Yašir tornò al suo posto, assicurandosi al seggiolino con la cintura di sicurezza. Prima di partire avevano controllato le loro armi e lo stato delle celle energetiche, che erano tutte cariche e pronte all’uso. Altre unità di scorta erano disposte all’interno del veicolo.
    Avrebbe di gran lunga preferito non doverle usare, ma che fossero sempre a portata di mano era un dettaglio rassicurante.
    Nel malaugurato caso in cui non fossero state sufficienti a tirargli fuori da qualsiasi impiccio lungo la strada per i commilitoni di Valor, e potevano essercene tanti così lontani dal loro campo-base, il loro Taurox era fornito anche di un robusto generatore portatile modello Atheaks Xion-Pattern per ricaricarle con la massima rapidità.
    Se tutto va come deve andare, servirà più a loro che a noi...
    Stringendo i braccioli del suo sedile, Yašir l’adocchiò corrucciato. Era stata messa sotto al sedile del conducente e assicurata al pavimento zigrinato dell’abitacolo tramite due ampie cinture di sicurezza. Grande poco più di una cassa di granate fumogene, installarla in posizione era una questione di pochi minuti. Una matassa di cavi era legata al centro, con gli spinotti protetti da custodie di plastica.
    I Machinomanti interni al Reggimento non erano molto contenti di quel marchingegno. Stando a loro, l’Atheaks bruciava in fretta le componenti più delicate delle celle da 19 Megathule, accorciandone la vita operativa.
    Allo stesso tempo, comprendevano bene le necessità della unità stanziate presso le prime linee. Il fronte poteva muoversi da un momento all’altro, come stava succedendo in quel momento, e un reggimento come il loro doveva essere sempre in grado di supportare le altre unità.
    Sbirciò alle proprie spalle, oltre gli altri sette occupanti stipati nel vano di carico. Sulla destra, prima del portellone di sbarco, il servitore porta-carichi attendeva d’essere destato dalla sua condizione di stand-by letargico. Era un modello a cui erano state tolte le gambe, sostenute da un sistema locomotore cingolato, e dalla programmazione il più possibile grezza e utilitaria. Era facile da pilotare a distanza, senza arrischiarsi fuori dal veicolo, e ben poco impegnativo da sostituire.
    Dopotutto, la Sacra Terra aveva un serbatoio pressoché inesauribile di pellegrini dei quali non importava niente a nessuno...
    «Signore?»
    A parlare era stato Namir, il secondo seduto lungo il rostro di sinistra. Gli rivolse un cenno d’assenso con il mento e lui prese a guardarsi attorno. «Dite che sono stati loro?»
    «Può darsi.» Sì o no, in una situazione dai parametri ancora ignoti, erano troppo definitivi. «Non sarebbe la prima volta.»
    «Quindi sono vicini.»
    «Se sono stati loro, allora può darsi.»
    Erano già stati avvisati a Chernobasa, durante i combattimenti per sgomberare la città dalle forze d’occupazione del Severan e dei suoi infidi alleati. Dai rapporti che aveva dovuto leggere, un compito che preferiva allo stare sotto alle fucilate in prima linea, non era emerso nessun nuovo elemento di valore. Diverse unità li avevano incrociati sul campo, prima presso lo spazioporto e poi attorno alla diga secondaria di Haronskay Nyubas. Non erano il tipo d’unità che un esercito come quello del Severan avrebbe sacrificato in un’azione di retroguardia, però. Quindi, era assai probabile che fossero riusciti a sganciarsi e ripiegare in buon ordine.
    Il soldato si batté le mani sulle ginocchiere. «Mettiamo che siano stati loro e che sono ancora qui nei paraggi...»
    «Siano» scandì Yaresa, sporgendosi in avanti. «E che siano ancora nei paraggi.»
    «Non fare una vendassata, tu.»
    «La grammatica non è negoziabile.»
    Joris scalò di marcia. «Ci risiamo...», giunse la sua voce dall’abitacolo. «Di grazia, può farlo semplicemente andare al punto?»
    Yaresa tornò con le spalle allo schienale del suo posto.
    «Quel che volevo dire è… abbiamo l’autorizzazione ad ingaggiare, se li troviamo?»
    Forse era il caso di trasferire quella testa calda in un reggimento più operativo. Per quanto guadagno mediatico potessero dare alla loro unità, gli idioti volenterosi finivano sempre con il farsi ammazzare assieme ai loro compagni. «Non è il nostro compito.»
    «Quindi no, signore?»
    «Quindi», ribadì usando una sua parola per costringerlo a prestargli la massima attenzione, «nel qual caso dovessero essere nei paraggi e ci attaccassero, ovviamente voglio che li azzeriate. Ma se non vengono loro da noi, lasciamo la questione ad un’unità operativa.»
    I ragazzi di Qirie El’ena, per esempio.
    Yaresa puntellò con il piede sul pavimento. «Perché loro hanno sempre i compiti più gloriosi?»
    «Perché loro tornano a casa come C-Tre-Null-Tre. Noi no.» E mi piacerebbe molto che la situazione non cambiasse affatto.

    Quando furono in vista dello Hypaspista e del cavalcavia, Joris ridusse la crociera del Taurox. Sterzò a destra, costeggiando il recinto protettivo. All’ombra dell’arco, che avrebbe fornito qualche copertura dura in caso di droni o servo-teschi suicidi, tirò il freno.
    Le ruote presero a stridere, alzando una lagna meccanica che riverberò dentro il mezzo.
    «Siamo fermi!», annunciò sbirciando sopra alle proprie spalle. «Avanti, giù! Giù!»
    Già pronto presso la panca sinistra del vano di carico, Yašir impugnò i maniglioni del portellone di sbarco e li sbloccò con una torsione. Spinse il pannello a lato e scattò giù, affrettandosi a liberare il passaggio; inforcò il Kantrael sotto l’ascella, l’indice pronto presso la scocca del grilletto, inginocchiandosi il più rapido possibile sull’asfalto.
    Namir e Yaresa lo seguirono a mezzo secondo di stacco, portandosi al suo fianco e disponendosi per coprire i suoi angoli ciechi. La seconda gli lanciò un’occhiata, alla quale Yašir rispose aprendo la destra e stringendola due volte a pugno.
    «Libera!», annunciò nel Vox a corto raggio. «Giù, muovetevi!»
    Gli altri elementi della squadra sbarcarono, allargandosi a ventaglio tra sussulti di zaini e monchi scatti d’armi laser. Alzò gli occhi, pronto a ricevere la presenza degli Elysiani. Presso l’ingresso della galleria sottostante il cavalcavia, uno di loro già lo fissava.
    Era un uomo particolarmente alto, con un ampio taglio di spalle. Non indossava il suo elmetto integrale, che anzi stringeva con un’offensiva noncuranza nell’incavo del braccio. Aguzzando la vista su di lui, Yašir notò che aveva inarcato un sopracciglio scuro.
    «Uhm, phràs? Anche un po’ meno, eh.», esordì in Basso Gotico. La sua parlata aveva l’affettato accento dei poveri. «L’area è già stata messa in sicurezza.»
    Oh. I valorini avevano un che di quasi rilassato, in effetti. Due di loro, un tiratore scelto armato di las-lungo e una operatrice specialista fornita di un cogitator da polso, erano proni al fianco dello scafo dello Hypaspista. Altri tre elementi sorvegliavano l’ingresso della galleria, mentre il resto della squadra era di guardia attorno al mezzo.
    «Vedo...» Si alzò, spazzando dal suo schiniere la polvere dell’asfalto. Lasciò andare il Kantrael, che ritornò a pendergli dal fianco, e si avvicinò a chi gli aveva parlato. «Dunque, chi di voi è in comando?»
    L’Elysiano schioccò la lingua e lanciò un cenno del mento ad uno dei suoi commilitoni presso l’entrata del cavalcavia. Quest’ultimo scrollò le spalle, alzò una mano con fare interrogativo e poi gli rimandò lo stesso, identico gesto.
    Yašir aggrottò la fronte. «Potete spiegare?»
    «È lui che comanda», disse il mezzo-gigante. Sulla sua antischegge scura, una patch in velcro riportava in maiuscoli caratteri Alto Gotici la dicitura: “VT-SGT M. AURELIOS.”
    «Balle!», rimbrottò l’altro, avvicinandosi a passi non affrettati. «Non lo ascolti, è lui in comando.»
    Guardandolo torvo, Yašir prese nota anche del suo identificativo.
    «Due sergenti per una sola squadra?»
    Quarta si strinse nelle spalle, rovesciando sull’asfalto un rimbrotto di giberne. Anche lui non indossava l’elmetto. Aveva abbassato il passamontagna termico, rivelando un viso che non vedeva una buona rasatura già da qualche giorno. I suoi lineamenti erano più patrizi e definiti di quelli del gigante e parlava con una cadenza pulita, quasi spoglia del canterellante accento degli Elysia. «Al nostro colonnello piace così, signore. Siamo gente particolare.»
    «Noto...»
    Entrambi gli tesero l’avambraccio. Strinse prima quello di Quarta, che si sprecò in un mezzo cenno d’assenso a restituirgli la cortesia. «Sergente-specialista Quarta Sirio, signore.»
    «Tenente-capitano Arkharat Ilastass Yašir, 38° Reggimento di Supporto Guardie di Sol.»
    Al momento di ricambiare il saluto al tale di nome Aurelios, Yašir aggrottò la fronte. Visti da vicino, lui e Quarta avevano un che di simile. Al di là della comune origine, il taglio dei loro visi era simile. La linea del mento era pressoché identica. Differente era l’arcata superiore, dove Quarta dimostrava la sua nobiltà e Aurelios il venire da qualche bassofondo senza nome.
    «Markhairena Aurelios», esordì guardandolo di misura dall’alto in basso. «Sergente-specialista, Prima Compagnia del Battaglione Valor. 164°esimo.»
    «Quindi siete proprio voi, i ragazzi di Qirie El’ena. È un onore fare la vostra conoscenza.»
    «Yvp. Lei sarebbe il colonnello», replicò Aurelios. «La conosce?»
    «Ho letto qualcosa.»
    Facendogli cenno di seguirlo, Sirio si schiarì la gola. «Allora può tornarvi utile sapere che non ama essere chiamata in quel modo.»
    «Ma è...»
    Lo sterzare del pick-up dei Jerushiti strangolò le sue parole. Parcheggiarono una decina di metri dalla poppa dello Hypaspista e scesero di bordo alla spicciolata. Senza alzare la mano, o lasciare andare il suo compatto Accatran stretto con la sinistra, Markhairena schioccò le dita alla vista del primo a scendere.
    «Oy, Qu’ssan! Phrà
    Il Jerushita sorrise a trentadue denti unti di nicotina, allargando le braccia alla vista del sergente Elysiano. Si abbracciarono con vigore, spargendo roche note di zaini da campagna e antischegge che s’urtavano. Erano alti e massicci, con indosso simili mimetiche da fatica verde scuro.
    «Rul’eyos! M’faràh
    «Non si preoccupi», commentò Quarta. «Noi e i Jerushem ci conosciamo da tanto.»
    «Non siete...» gli vennero meno le parole e si guardò attorno. «Non siete la stessa gente, più o meno?»
    «Cugini. Jerushem è una quasar-demensne dei Tinysia.»
    Markhairena e l’artificiere Qu’ssan si separarono dalla loro stretta e il primo cinse le spalle al secondo con il braccio. «Allora, senti, qui abbiamo una rogna tra le mani.»
    «Cazzo è, un rasoio?»
    «Yvp
    Il Jerushita alzò lo sguardo al cavalcavia, poi comunicò qualcosa alla sua squadra. Da questa si sganciò una guardia, carica sulle spalle di un voluminoso zaino tattico. Era un uomo barbuto come Qu’ssan, e sotto l’elmetto s’intravedevano le fasce di un turbante nero.
    «Giuro, è il quinto da stamattina», bofonchiò all’indirizzo di Markhairena. «Jezhra, adoro il tuo shiraad. Ne vorrei uno anche io.»
    «La scatola di latta? Sai, forse ne abbiamo uno in magazzino. Una mina, giù a Chernobasa, gli ha fottuto un cingolo però...»
     
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    Capitolo I-D
    Hahàva Voini’ìl




    +++Segmentvm Obscvrvs
    Hera-Amiir Sector

    Espansione di Zaqqurava
    Sistema Stellare di Hervara

    Hervara IV-B, Mondo-Civilizzato
    Continente di Invyyere

    Portal Danòrra, 203.06 chilometri SO da Negemyn
    M42.Y022+++


    L’orizzonte al di là del cavalcavia sussultò. Ondate di pressione batterono l’asfalto della provinciale, che rispose con tremori senza ritmo. Non trascorse che una manciata di secondi prima dell’arrivo dei fruscii agitati degli alberi.
    L’onda d’urto attraversò la galleria, spazzando un dito di polvere da sopra l’asfalto. Sbatté addosso alla prua dello Hypaspista, che rantolò sotto quel colpo.
    E poi passò oltre.
    I rinforzi terrestri s’accucciarono di colpo, aggrappandosi alle loro armi con scatti nervosi. Sia sul canale del Vox a corto raggio che dal dispositivo di Tiber sopraggiunsero i segnali acustici di via libera, seguiti da qualche scandita comunicazione di servizio.
    Era tutta normale amministrazione.
    Soldatini...
    Hahàva tirò su la manica destra e inclinò il braccio; sul quadrante del suo chronometròn da polso, le lancette segnavano le 07:17. Coprì l’orologio, tendendo l’orecchio al disperdersi delle eco. Non poteva biasimarli troppo; il 67esimo Guardia di Sol era un reggimento di supporto. Il suo lavoro, per dirla in parole semplici, non era quello di combattere ma di mettere gli altri nelle condizioni migliori per poterlo fare.
    Tuttavia, le era ben chiaro quanto fossero fuori-posto, laggiù: le loro uniformi scure e dorate erano perlopiù pulite e stirate e le armature non avevano addosso poi molti segni di scontro. Il loro ufficiale era il più vissuto, e più che altro sembrava uscito da una rissa a gomitate.
    Probabilmente quell’escursione ai bordi della zona operativa era più azione, in una volta sola, di quanta ne avessero vista in settimane. E che gran avventura!
    Una bella dose di stare-e-aspettare.
    Il cielo tremò di nuovo, questa volta dalla direzione opposta. Un brivido le attraversò la schiena e s’irrigidì lì dov’era, digrignando i denti. L’onda di pressione li scavalcò in una falcata a regime super-sonico, sfrecciando alle loro spalle. Da qualche parte giù a sud, forse verso Chernobasa, un tonfo attutito nacque e rimbalzò sorde vibrazioni a terra.
    Inclinò il capo, cercando una traccia di quel colpo nel cielo. Sopra alle loro teste, traforando una dozzina di nembi gibbosi, era apparsa una scia d’accelerazione. Già si stava disperdendo, sfocando i suoi bordi sullo sfondo rossiccio del cielo.
    I Severan stavano rispondendo al fuoco.
    «C’è passata vicino...», osservò uno dei Jerushiti, il sergente Lisan, rialzandosi in piedi. La mano gli era corsa al cane del suo fucile laser, un corto modello Qal-Qadesh Pattern dalla cella ricurva.
    «Sì, anche troppo!»
    Alle prese con l’ordigno nascosto nel muro, Qu’ssan scosse la testa. «I traditori vogliono innescare lo amtaal con la Tarkovyyna.»
    Sogghignò sotto il suo passamontagna a sentirlo parlare. Amtaal, duello. «Le navi non possono fare amtaaltra loro, aqha
    «Certo che possono. Amtaal è...»
    «So cos’è», lo interruppe, rivolgendogli una mano alzata e aperta. Di risposta, il sergente assentì e tornò a fare luce a Qu’ssan.

    Hahàva sbirciò il fondo della galleria, dove l’arco d’uscita apriva all’allungarsi dell’asfalto dipinto. Più a nord, oltre la stazione di sosta segnalata dal frontespizio del cavalcavia e al di là di Negemyn, doveva nascondersi la loro flotta atmosferica.
    «Oh, Libri!»
    Cariàd spostò la mano portante dal cane della las-carabina al fianco dell’astina. Era al centro della galleria, il più vicino al portellone taglia-fuoco. Al di là, i sette civili aspettavano ormai da più di mezz’ora d’essere liberati. Dalla finestrella che dava sul condotto aveva potuto vedere che erano quattro donne, un uomo anziano e due bambini. «Sì?»
    «Sicuro di saperci parlare con ‘sta gente?» Lo sapeva fare, ma dargli un po’ di fastidio aveva sempre il suo perché.
    Dalla loro prima, sfortunata operazione di combattimento in Netheria Peninsula fino a lì e poi ovunque il Comando della Crociata determinasse di spedirli a contrastare i nemici dell’Imperium, certe cose non dovevano cambiare.
    Com’era prevedibile, lui si limitò a sbuffare. «Dov’eri le altre seicento volte che l’ho fatto?»
    Hahàva sollevò una mano, schiudendo le dita felpate dal guanto tattico. «Egýt, ma vorrei ricordarti quella storia su Volgarft.»
    Libri scosse la testa. «Te la spiegherei, se solo non sapessi già quanto è inutile.»
    Incrociate le gambe davanti al fanale sinistro dello Hypaspista, Hahàva portò a sé il las-fucile e lo sistemò perché non fosse in linea con i commilitoni Jerushiti al lavoro sull’ordigno. Erano all’opera già da diversi minuti. Il loro viavai aveva ammonticchiato materiale per il disinnesco, schermi di controllo e una disordinata mareggiata di plastek istruttivi ai piedi della parete.
    Anche Cariàd spostò la sua attenzione su di loro, ma tenne il suo Accatran basso.
    A mezz’aria, il sapore del Promethium esausto, spinto fuori dal loro Hypaspista, così come dal Taurox dei soldatini mezzi inutili, si faceva più forte. Era acre. Attraversava il tessuto dei passamontagna e pungeva le narici. A tratti, sapeva come d’incenso andato a male.
    «Ah-ah, divertente. Dilla in parole che puoi mangiare.»
    Quell’espressione lo punse, proprio come avrebbe fatto il pungiglione di un’ape, portandolo a lanciarle un’occhiata di traverso. Al sopraggiungere di nuove scosse, tre che provenivano da sopra alle loro spalle, aggrottò la fronte. «Woah, cos’è questo citare il capitano?»
    «Non ha tutti i torti, no?»
    Le eco svanirono man mano.
    «Mah!» Con la destra, Libri accennò rapido al portone. «Loro? Un dialetto Haronico. La gente su Hive Volgarft? Un dialetto Ishtarico. Non parlano la stessa lingua.»
    Si umettò le labbra con un passaggio della lingua. Per quello che aveva sentito, era sempre la stessa brodaglia di vocali mangiucchiate e suoni senza Dio-Imperatore. «A me sembra tutta uguale...»
    «Magari, Ha’, e dico magari...» Libri si spostò per dare più spazio agli artificieri. «Potrei saperne di più io che queste robe le ho studiate, eh. Però tranquilla, la mia è solo un’ipotesi.»
    «Uhm. Sì, forse.»
    Saltò giù dallo scafo. Puntando il suo Merovech-Pattern in basso, lo inclinò a lato per accedere ai controlli delle due binate celle energetiche. Ambo erano illuminate di verde. «Ma alla fine hai capito di cosa blaterava… si chiamava Vlodgja? Valodya? Vlodia?»
    «Valodia», scandì lui, come se le stesse facendo una lezioncina. «E ti stai confondendo. Valodia era il sergente. Ti riferisci a Baris.»
    «Sì, lui, Boris.»
    «Bah-ris
    Sistemata la tracolla della sua arma, Hahàva alzò gli occhi al cielo. «Non fare il Vendas, ora. Quel coglione lì, comunque.»
    Ièn scrollò le spalle. «Mah! Era ubriaco come una mela. Ad ogni modo, era qualcosa-qualcosa su un tizio che aveva ammazzato un sacco di gente, fracassato un quartiere e rubato tutta la sua vodka.»
    «Pezzo di merda.»
    «Mmmh», Ièn assentì, interessato alla porta. «Se vuoi la mia, probabilmente era un kasr’ abbandonato e su troppi steroidi.»
    «Oppure un niccian.» Manica di gene-potenziati falliti. Le sarebbe piaciuto ucciderne qualche altro, dopo il loro assalto a Busphorìn. «Comunque, non era roba per noi.»
    «No, non lo era.»

    Un picchiettio dal tono metallico rintoccò nella galleria. S’allertò e la sua mano scorse all’impugnatura del Merovech-Pattern e alla scocca del grilletto.
    Issandosi in piedi, Qu’ssan sputò a terra e pestò il piede sulla sua saliva. In alto sopra alla testa, strette con la mano sinistra, le tenaglie mordevano un piccolo pannello di metallo. «Andata!»
    Aurelios gli diede una sonora pacca sulla spalla, spingendolo in avanti di mezzo passo. «Grande! E bravo bastardo, ce l’hai fatta.»
    L’artificiere liberò il pannello della morsa e lo gettò a carenare innocuo sull’asfalto. Ripose le tenaglie in una giberna e tornò subito chino, presso la parete. Ora era visibile un rettangolo, profondo non più d’un pollice in lungo, scavato nel cemento armato. Hahàva si avvicinò, scavalcando con una falcata il filo d’innesco finito floscio a terra.
    All’interno del vano c’era una scheggia-cogitator collegata a degli involti di plastico. Qu’ssan ne estrasse uno e lo fece rimbalzare sul palmo della mano. «Ma guarda un po’...»
    Il capitano dei soldatini venne a spalleggiarlo; accostò la telecamera all’involto, tracciando un lento semi-cerchio per catturare quanti più dettagli poteva. Qu’ssan attese che finisse prima di riporre l’esplosivo presso i suoi piedi. Punse il sacchetto per rovesciarlo sul fianco e lo girò, aiutandosi con una bacchetta di metallo dalla punta gialla.
    «C-IV d’ordinanza!», annunciò. Sul viso, scavato dal sole, c’era uno stanco sorriso di soddisfazione. «Lotto 248-3116-1438, Velecti Manufactorum, Lorn III.»
    «Questa merda è aurelica...», commentò subito uno dei soldatini del capitano, accovacciandosi per vedere meglio l’esplosivo. Hahàva l’occhieggiò per un secondo, rilassandosi al vederlo non avvicinare le mani al plastico. «Quindi sono stati loro.»
    «Maledetti traditori!»
    «Schifosi aurelichas...»
    Il sergente Lisan alzò una mano: «Non saltiamo a conclusioni affrettate» disse perentorio, imponendosi sul mormorio delle guardie terrestri. «Potrebbe essere stato chiunque, dopo aver messo le mani su qualche magazzino.»
    «Sì, può darsi», replicò l’ufficiale dei terrestri. Com’è che si chiamava?
    «Con le guerre in Korianìs c’è stato molto disordine», continuò il sottufficiale jerushita. Era andato subito a fiancheggiare l’operato di Qu’ssan, inginocchiandosi alla sua destra e facendogli luce mentre lavorava. Come lui, era solido e ben piantato. Sul suo viso, incisi in verticale, c’erano dei simboli tatuati di colore nero. Lettere, le aveva riconosciute.
    Non erano troppo dissimili dalle incisioni sui Grandi Templi. Libri era quello pratico con le lingue, ma lei conosceva liturgie e canti. «Accusarli senza altre prove potrebbe non essere saggio. Ma se questa è stata opera loro, possano scheggiarsi le loro lame.»
    Aurelios e Sirio annuirono quasi all’unisono. «Yamn, phrà
    «U’kha-ljamen», replicò lui mentre Qu’ssan disponeva fuori dal vano gli altri involti di plastico. «Ora che l’ordigno è stato disarmato possiamo tirare fuori i civili da lì.»
    «Finalmente», borbottò Ièn, stringendo il maniglione anti-panico. Alzò l’indice dell’altra mano, portandolo proprio difronte alla finestrella. Disse qualcosa nell’incomprensibile lingua dei locali, che lei non capì, poi tirò la porta a sé.
    E questa non si smosse.
    «Cazzo, è bloccata?» Tirò di nuovo, ottenendo lo stesso risultato di prima. La porta rimaneva lì, quasi a prenderlo in giro.
    Con uno scatto, Hahàva si portò alla sua sinistra. «Libri, meno seghe e più flessioni!»
    «Vai a farti fottere!»

    Si gettò il Merovech-Pattern a tracolla e piantò i piedi contro l’asfalto, abbrancando il maniglione con ambo le mani. Ièn scosse la testa e, riposto il suo Accatran dietro le spalle, la imitò.
    «Al tre?»
    «Andata. Uno, due...»
    Tirarono con tutte le loro forze. Lanciando un lamento stridente e affaticato, la porta si sganciò dai suoi blocchi e si mosse incontro ai due.
    Abbandonarono la presa allo stesso momento, ritirandosi per recuperare le forze. Libri si spazzò le mani sui calzoni della mimetica e sbuffò, tornando alla carica con un ringhio sommesso. Facendo leva sul piede, spinse indietro la porta d’una spanna e poco più.
    «Hàva, non startene lì impalata!», la maledisse, flettendo le dita. «Mi aiuti o no?»
    Dorn Santissimo, di cos’era fatta? Acciaio super-corazzato e cemento? Anzi, no! Elmetti di hell-divers sciolti e ri-forgiati, magari?
    Incassata la testa tra le spalle, Hahàva si riunì agli sforzi di Ièn e assieme ripresero a tirare, spingendo l’anta sempre più lontana dai cardini. Guadagnato un varco, Hahàva sgusciò una mano sul lato interno e s’impuntò, caricando la sua spinta con le spalle e la schiena.
    Con uno stridio acuto, la porta cedette. Svirgolò in avanti, spingendo Libri in avanti e scaricandogli addosso l’impeto che le era stato gravato addosso dai loro sforzi. Il commilitone lasciò andare la maniglia e si spostò con uno scarto a sinistra, quasi stendendosi sull’asfalto. Si salvò all’ultimo dal cadere all’indietro, piegandosi su di un lato recuperare l’equilibrio.
    «Phràs...», esordì Markhairena, tendendo una mano a Libri. «Penso che fosse da spingere.»
    Ah...
    Lui si aggrappò al suo avambraccio, tornando in piedi con un colpo di reni. Quasi d’istinto, si volse e piantò un calcio contro la porta. Il colpo risuonò all’interno della galleria, simile ad uno sparo a bruciapelo, e i civili si rannicchiarono contro la parete interna.
    «Stupida bastarda!»
    «Libri, calmati» gli disse Hahàva, stringendogli le spalle con il braccio. Come lui, aveva il fiato tagliato un po’ corto. «È fatta, è fatta.»
    «Sì, sì...»
    «Mezzasega.»
    «Cosa, che ho fatto tutto io?»
    Intromettendosi, Aurelios si portò dirimpetto alla porta. I civili non si erano mossi. Anzi, erano ancora stretti al muro, con occhi sbarrati ed espressioni intimorite.
    «Non vogliamo farvi del male!», disse il sergente. Indicò l’Imperiale Aquila Bicefala stampata sulla sua placca toracica, battendoci contro pian piano. «Siamo amici. IG! I-G! Guardia Imperiale.»
    Lasciò andare il commilitone, dandogli una spintarella in avanti. «Renditi utile, Libri. Traduci, che non mi sembra che abbiano capito molto il sergente.»
    Affiancando Markhairena, Ièn si schiarì la voce con un colpo di tosse. «Mye druhiiv. Imperialnyy Gvardia. Astra Militarvm, zvid’ Elysiya ta Jerushiim i Sancte Terra. Hqto u vas ‘varye Narmalnyy Hotike?»
    Una delle donne, sulla trentina e con uno sporco cappotto color panna, alzò timidamente una mano. «Io. Io lo parlo un po’. Siete… siete amici?»
    I due bambini erano attaccati alle sue ginocchia, notò Hahàva. I leggins della bambina erano sporchi di pioggia e polvere di strada, mentre il maschio le teneva la mano, quasi pronto a volersi frapporre. Non potevano avere più di otto o nove anni.
    Ièn annuì, piano. «Sì, signora. Non vi faremo del male», disse. Lo ripeté un momento dopo, passando a quella sottospecie di Haronico locale. «Siamo il vostro esercito, venuto a liberarvi.»
    L’anziano si avvicinò al sergente. Gli strinse l’avambraccio, come a volersi appoggiare a lui. «Tu… sei alto, figlio.»
    «Mamma mi ha dato dei geni buoni», gli rispose, guidandolo ad appoggiarsi fuori dalla porta. Si assicurò che stesse bene, poi scoccò un cenno a Ièn.
    «Capisci che cos’è successo qui, d’accordo? Evacuiamo questa gente quanto prima.»

    Ièn offrì una sigaretta alla signora con il cappotto sporco. Dei sette, era la più reattiva. «Può dirci cos’è successo?»
    «Sì, sì...» mormorò, sporgendosi in avanti per approfittare dell’accendino di Ikaròs. «Siamo di Nemesmi, veniamo da lì. Stavamo andando a Chernobasa.»
    Ikaròs inarcò un sopracciglio. «Nemesmi? È a ottanta chilometri da qui. Territorio Severan.»
    «Sì, lì comandano loro.»
    Ancora per poco, se ci lasciano andare avanti. «E perché volevate andare a Chernobasa?»
    La donna inspirò una nervosa boccata di fumo.
    «Ci siete voi, ecco perché. Abbiamo visto le luci, le fiamme… le esplosioni. Quando sono passate le ambulanze e i convogli, abbiamo capito che eravate sbarcati.»
    «Rincuorante.» Non le dava l’idea che stesse mentendo. Era sotto-shock, certo, ma riusciva a farsi intendere. Il suo accento era lo stesso dei locali, per quanto più lieve in certi toni. «Quindi si è sparsa la voce del nostro arrivo.»
    Assentendo con il capo, lei continuò a fumare. «Siamo scesi in strada per guardare, ma i severan hanno imposto il coprifuoco e hanno mandato i loro a disperderci. Nel caos ho preso i miei nipoti e la macchina. Ci hanno sparato addosso!»
    Guardando Ièn di sottecchi, Hahàva lo vide aggrottare la fronte. «I due marmocchi sono i tuoi nipoti, quindi?»
    «Lionne e Jakrov.»
    «E poi cos’è successo?» incalzò Ikaròs, tirando a sé la tracolla del las-lungo. «Come siete finiti chiusi dietro la porta?»
    «Mi sono… unita ad altri che scappavano. Alcuni li ho presi a bordo, altri avevano la loro macchina. Abbiamo percorso la Provincialii per evitare i posti di blocco e per del tempo siamo stati da amici. Ci siamo rimessi in moto dopo alcuni giorni, ma ci hanno raggiunto qui.»
    «Chi? Le truppe del Severan?»
    La donna fece di sì con il capo. «Sono dei loro, sì, ma sono aurelici. Hanno armi e armature. Hanno sequestrato gli uomini e ci hanno chiuso dentro il condotto, messo la trappola e poi sono tornati indietro. Erano aurelici, però. Non severii.»
    «Signora, permette una domanda?», s’intromise l’ufficiale dei terrestri. Assieme al suo assistente di campo, si avvicinò a loro. Dalla cintura prese un palmare; sbloccato lo schermo, lo tenne sollevato perché lei potesse vederlo bene.
    «Questi aurelici avevano, per caso, queste insegne sulle uniformi?» Sullo schermo c’era la fotografia di un milite aurelico in anti-schegge e divisa verde scuro. Sullo spallaccio aveva uno scudetto verticale, attraversato da tre bande blu, viola e rossa. «Se si ricorda, ovviamente.»
    Hahàva represse un moto di sano disgusto alla vista di quello stemma.
    «Sì, sì. Avevano quelle insegne.»
    «Ah, fantastico...» mormorò l’ufficiale terrestre, girandosi di spalle e carezzandosi il mento. «Eccoli qui, i soldati di Ioannìs.»
    Gli schifosi scarafaggi delle Bande Scure. Guardando Ikaròs, Hahàva lo trovò intento ad aggiustare il livello del mirino di precisione. Ièn, invece, aveva incrociato le braccia contro il petto e tamburellava, scuro in viso, contro la tracolla del suo Accatran.
    «Sono dei macellai» continuò la signora, prendendo un respiro dal mozzicone ancora acceso. «E non sappiamo dove abbiano portati i nostri uomini!»
    «Ci hanno giocato», borbottò Hahàva, allontanandosi d’un passo. «Ci hanno fatto perdere tempo qui mentre ripiegavano e ora si saranno nascosti da qualche parte. Fantastico. Davvero fantastico, phràs
    «Guarda che quella è la frase del colonnello. Non citarlo, non sei lei.»
    Quanto era petulante! «Posso fare quel che cazzo mi pare, Libri.»
    «Sì, sì, continua a dirtelo...»
    L’ufficiale terrestre si intromise di nuovo: «Riporteremo queste informazioni al nostro comando, ma vi chiediamo di ripeterle in sede. Verrete con noi, se non vi dispiace.»
    «Dove?!»
    «Ci sono delle stazioni di filtrazione, ma non posso darle altri dettagli. Quelli dell’intelligence si accerteranno che siete leali.» L’espressione impaurita che si dipinse sul viso della donna spinse l’ufficiale a mettere le mani in avanti. «E vi forniranno immediatamente un posto dove stare finché non avremo scacciato i separatisti da casa vostra.»
    «Ma… e i miei nipoti?»
    L’uomo le fece cenno di tranquillizzarsi. «Verranno e staranno con lei. Non abbia paura; noi resteremo qui fino all’arrivo di un veicolo per portarvi in salvo. Vi chiediamo solo di cooperare con noi, come avete già fatto.»
    «Non siamo spie!»
    «Non ne dubito, signora», le rispose, facendo un passo in avanti con affabilità. «Andrà tutto bene e l’accertamento sarà rapido. E sotto la nostra supervisione. Non abbiate paura. È nostro interesse, però, togliervi dalla linea del fuoco.»
    E su quello aveva ragione. Con i civili in mezzo ai piedi, combattere diventava più difficile. Il fuoco amico era comprensivo, ma loro erano la Guardia Imperiale. Lo scudo che difendeva i regni dell’Imperivm non era bene che si mettesse a sparare sugli stessi.
    Non se poteva evitarlo, perlomeno.
    Fu a quel punto che notò Lionne, ancora attaccata alla giacca della zia e alla mano di suo fratello. La marmocchia aveva messo la mano in tasca e stava cercando qualcosa. Quando si accorse che l’aveva vista, abbassò la testa e continuò a cercare.
    «Cosa fai?», le sussurrò la zia. In risposta, la bambina tirò fuori un pugnetto d’imbottitura sfilacciata. Al centro della stessa c’era una catenella, appesa alla quale c’era un piccolo monile. Una lancia, imposta su due spighe di grano, alle spalle d’una classica Aquila Bicefala Imperiale.
    «E di papà!»
    Ièn annuì. «Oh, lo stemma di Garon.»
    Quasi a giustificare la bambina, la donna sospirò esausta. «Loro padre era stato mandato qui come guardia interna. Non sappiamo che fine abbia fatto.»
    Vedendo dove stava guardando la piccoletta, Hahàva chiuse gli occhi. Certo, era ovvio. Alla fine, che cosa le costava?
    Guardandola negli occhi, le sorrise con un mezzo cenno d’assenso e batté il pugno destro contro il centro della propria placca toracica, vicino a dove stava il suo cuore. Era lì che l’Aquila Imperiale era stata serigrafata sulla sua armatura, con le ali spalancate e il singolo occhio aperto.
    Ièn avrebbe potuto prenderla in giro, non si salutava un civile, ma evitò. Anzi, si unì al suo saluto, con una goccia di ligia precisione in più del suo solito.
    Anche Ikaròs si unì a loro.

    «Gente, a bordo!», esclamò Aurelios, arrampicandosi sullo scafo dello Hypaspista. Si sistemò vicino alla torretta, dispiegando in grembo il suo las d’assalto. Abbarbicandosi vicino a lui, Hahàva ruotò la propria arma per accedere al pannello di controllo della cella energetica.
    L’aveva già fatto prima. Sapeva che entrambe erano cariche e pienamente funzionali, ma c’era del buono nell’essere cauti.
    Sistemandosi vicino al copri-cingolo destro, Libri si tolse di dosso lo zaino tattico e lo trasformò in un cuscino improvvisato, sedendovi sopra.
    Con un sobbalzo, il veicolo tornò in moto. I suoi cingoli stridettero, assalendo l’asfalto con un ciclo continuo di placche in movimento.
    «Andiamo a caccia di aurelici.»

    Edited by dany the writer - 19/3/2024, 21:17
     
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    Capitolo I-E
    Aurelios Markhairena




    +++Segmentvm Obscvrvs
    Hera-Amiir Sector

    Espansione di Zaqqurava
    Sistema Stellare di Hervara

    Hervara IV-B, Mondo-Civilizzato
    Continente di Invyyere

    Portal Danòrra, 201 chilometri SO da Negemyn
    M42.Y022+++


    «A che stai pensando?»
    Alla domanda di Sirio, Aurelios schioccò la lingua. Tirò indietro la gamba, strisciando la suola dello stivale contro la ruvida corazzatura dello scafo. Dovette allungare una mano per impedire al suo zaino di rotolare giù, bloccandolo di peso contro una placca reattiva. «Che ‘sto scherzo era per farci perdere tempo.»
    «Sì.»
    I civili erano stati chiusi in quel cunicolo quel mattino stesso, se non prima dell’albeggiare. Non avevano visto deiezioni sul pavimento, scoperte o coperte che fossero, né macchie d’urina sulle pareti. Quei poveri disgraziati non erano stati rinchiusi abbastanza a lungo.
    Nemmeno il vecchio. Stempiato, stretto in un cappotto grigio e con le spalle curve; per quel che ne sapeva, avrebbe potuto passare per suo padre, o suo nonno.
    «Abbiamo preso la decisione giusta», aggiunse Sirio inforcando l’Accatran sotto l’ascella. Con l’altra mano, riportò il passamontagna a coprirgli le labbra. «E se c’è costata il raggiungerli, phrà, allora li prenderemo un'altra volta.»
    «Sicuro.»
    Aurelios sistemò il proprio Accatran a tracolla e allungò le mani all’ampia tasca a ragnatela destra dei suoi calzoni mimetici. Ne alzò il lembo protettivo e strinse la cerniera zip, tirandola giù con un colpo secco. Ne trasse una cella energetica nuova e la fece rimbalzare sul palmo.
    La spia d’avviso era smeraldina, piena e brillante. Una classica C-B Accatran-Pattern da 19 Megathule, con una capacità di sessantacinque colpi a media intensità. Scoperchiò una delle giberne appesa alla cintura e ne trasse un’identica cella la cui spia, però, ammiccava d’arancione sbiadito.
    Inserì la cella fresca nella giberna.
    «Jason!»
    Il capocarro non mancò la presa; prese al volo il caricatore ormai esausto e lo cestinò giù dalla sua cupola, avvisando prima di lanciarla.
    «In ricarica!», avvisò Yarat, il cannoniere del loro Hypaspista.
    Si erano lasciati il cavalcavia alle spalle già da una buona quindicina di minuti, continuando sulla larga corsia d’andata della Pronvincialii. Il servo-teschio di Zì ronzava in alto, setacciando la strada e il cielo, in cerca di possibili pericoli.
    I Severan, o i loro alleati, potevano aver nascosto altri ordigni lungo la strada, di luoghi utili ce ne erano tanti, tra i pioli delle recinzioni laterali e le auto-vetture che erano state abbandonate lungo la via.
    Con l’indice accostato alla scocca del grilletto, Aurelios trasse un mezzo respiro. Fermarsi a controllare ogni rottame sulla strada era impossibile, oltre che impraticabile. Già solo le macchine erano tantissime, ciascuna un possibile nido di esplosivi e OEI.
    Le operazioni di bonifica, poi, non spettavano a loro. Sarebbe toccata alla gente dei reggimenti di supporto, come quello terrestre che li aveva raggiunti al cavalcavia, con i loro artificieri, i tecno-preti e i vari gruppi sminatori.
    Aurelios si sporse in avanti, offrendogli un pollice alzato in segno di ringraziamento. Si volse alla sua squadra, abbarbicata sullo scafo; il messaggio fu chiaro, perché non persero tempo a spogliarsi delle loro celle usate, passandole una alla volta al capocarro.
    La catena durò alcuni attimi.
    Dall’apparato vox di Tiber risuonò un segnale di Via Libera. Lo seguì un breve fremito di statica.
    «Vang-Primvs, qui Valor-Com. Ricevete?»
    «Valor-Com, riceviamo in chiaro.»
    Aurelios si guardò attorno. Distanti cinguettii animavano le fronde degli alberi ai lati della strada. Pinete azzurre e rosse, perlopiù. Non erano fitte, né contigue: già due volte, negli ultimi quindici minuti, piccoli caseggiati abbandonati erano spuntati tra una macchia e la sua seguente sorella.
    «Passiamo le comunicazioni a Loc-Com Unvs», annunciò Yeren. «Chiedono il vostro status operativo e un ping di geo-localizzazione.»
    Tiber digitò una stringa di numeri sul tastierino del Vox. «Plvs-Plvs. Restiamo in stand-by per il cambio linea, passo.»
    «Copiato. Attendete.»
    Il canale comunicativo si zittì per un secondo. Un fischio lo invase, ragliando qualcosa in Lingva-Technis, per poi sparire tanto velocemente quanto era apparso.
    «Loc-Com a Valor Vang-Primvs, Loc-Com a Valor Vang-Primvs
    «Riceviamo», disse Tiber.
    Era la voce di un uomo. «Vang-Primvs, inviate un ping.»
    Schiacciato sul pulsante d’invio, Tiber si tirò indietro con un colpo di reni. Strinse la cornetta tra spalla e collo, usando l’altra mano per mantenere il cavo lontano da possibili ingarbugli. «Ordine compreso e svolto. Stand-by.»
    «Copiato, plvs.»
    La via asfaltata continuava, lunga fin oltre l’orizzonte. Andava a Chenkovopropila, Muraktirka, Portal Danòrra Poleìnuv e ancora più in là, a Negemyn, Nova Haronskaya e cento diversi nomi, tutti altrettanto impronunciabili. Li aveva visti sulle mappe olografiche prima dello sbarco a Chernobasa, e durante i vari briefing pre-operativi tenuti dal loro Colonnello.
    Speriamo che siano più difficili da dire che da liberare…
    Il vox crepitò: «Abbiamo definito la vostra posizione, Vang-Primvs.»
    Annuendo, Tiber sbloccò un altro metro di cavo dall’allaccio a lato dell’apparato e si volse a guardarlo, offrendogli la cornetta. Sistemandosi alla meglio vicino all’operatore, Aurelios l’avvicinò alle proprie labbra e spinse il pulsante d’accensione. «Superato cavalcavia per S-11 M.49.» Staccò il pollice dal pulsante e riprese fiato. «In dirittura per piazzola di sosta, sempre S-11 M.49.»
    Avrebbero trovato gli aurelici e i Severan, lì? Lo sperava, in un certo modo. Se non avessero incontrato resistenze d’alcuna sorta, sarebbe stato probabile che stessero marciando dritti in qualche trappola. Incrociare dei contatti ostili lungo la loro avanzata, invece, poteva voler dire che ci fossero ritardatari e vittime della disorganizzazione.
    Un nemico disorganizzato era un nemico che combatteva male.
    «Copiato.»
    «Disinnescato OEI con ausilio Jerushita ed evacuato sette civili.»
    «Positivo, continua.»
    Un’altra grande giornata nella Guardia Imperiale! «Nessun contatto ostile lungo la strada.»
    «Vang-Primvs, siete autorizzati a procedere per S-11 M.49, ma avete ordine di cambiare strada. C’è una corsia di decelerazione avanti a voi. Controllate il sito prima di procedere.»
    «Plvs-Plvs. Avete le coordinate?»
    «In arrivo. Riferite appena avete assicurato l’area, passo e chiudo.»
    Nel momento in cui la chiamata terminò, Jason sgusciò all’interno dello Hypaspista attraverso la scaletta in coffa. Zhì s’arrampicò su per la cupola, scavalcando il parapetto. S’accucciò dietro allo scudo balistico e gettò un’occhiata al suo cogitator da polso.
    «Quindi?»
    Tiber recuperò la cornetta e riavvolse il filo, poi prese a picchiettare le dita sul monitor del suo apparato vox, collegandolo all’unità portatile di Zhì.
    «Hai tutto?»
    Lei gli rispose con il capo, poi alzò gli occhi al suo drone. Il servo-teschio ricognitore si staccò dalla sua orbita di pattuglia sopra allo Hypaspista, accelerando in crociera verso nord. Scese di quota, portandosi alla stessa altezza del guard-rail, mentre le sue occhio-camere continuavano a trasmettere lo stream al cogitator della sua pilota.
    «Non tenerlo così basso», commentò Jason. Stringendosi per non sfrattare l’operatrice, il capocarro si appoggiò alla brandeggiabile con il gomito. «Non abbiamo visuale dall’alto, poi.»
    «Sì, e se me lo pigliano a colpi di laser non ne avremo e basta.»
    «Dettagli.»
    Il servo-teschio recuperò altitudine, salendo d’un paio di metri. «Contento, adesso?»
    «Se c’è un’AAC in zona, non lo sarai tu nel momento in cui ci prende.»
    «Pessimista.»
    «Sempre», ribadì lui. «Siamo noi nelle scatolette quelli che finiscono sempre male.»
    Ièn si rianimò. «A dirla tutta, se un razzo dovesse arrivarci addosso ora…»
    «Non portarci sfiga, Libri.»
    «Stavo dicendo…»
    Zhì lo zittì alzando una mano. «Via sgombra. Non rilevo tracce termiche.»
    «Rottami?» le chiese il capocarro, sporgendosi per guardare il suo monitor. «Come giudichi la viabilità?»
    «Direi che è fattibile. Non ostruiscono il passaggio.»
    Aurelios si allungò dal cingolo alla cupola, scavalcando Hahàva con un colpo di reni. Abbracciò due maniglie di sicurezza, issandosi sul bordo della coffa. Con la destra recuperò l’impugnatura dell’Accatran e portò l’indice della sinistra sopra allo schermo della specialista. Le occhio-camere del suo drone inquadravano in dettaglio un varco laterale a due corsie.
    «Che dici?»
    Alla domanda di Jason, Aurelios rispose aggrottando la fronte. «Non è molto coperta…»
    «Già…»
    «Abbiamo i nostri ordini. Dici che hai un parcheggio buono, lì?»
    «Mmh, forse il gabbiotto.» A guardarlo dall’alto, non era granché. Era troppo sottile per offrire un riparo adeguato al loro VPIC, e le sue pareti non avrebbero fermato che calibri molto, molto leggeri. Ma l’area era scoperta comunque la si prendesse. «Non mi piace.»
    «Neanche a me.»
    Accovacciandosi ai piedi della cupola, Aurelios batté una mano sul suo bordo. «Quanta autonomia abbiamo?»
    Dopo un breve scambio con gli altri due membri dell’equipaggio, Jason alzò la testa dalla tromba della scaletta d’accesso all’interno. «Cinque ore, tenendo questo regime.»
    «Ièn, avvisa che ci servirà un pieno», intervenne Sirio. Si portò dal lato sinistro del mezzo al fianco di Aurelios, che si spostò d’un passo per fargli posto. «Sempre ammesso che non abbiano una pompa, giù alla Zavtacamoil.»
    Per un momento dominò il silenzio tra loro, rotto solo dal procedere dei cingoli sull’asfalto. Trascorsi quei secondi, tutta la squadra scoppiò a ridere.
    «Uhm, buongiorno» esordì Hahàva, dalla punta del cingolo sinistro. «Sì, guardi… allora, mi servirebbe un pieno per il mio carrarmato.»
    «Vuole la Verde, la Rossa o il greggio grezzo?»
    «Verde, è un Imper-Septim!», esclamò Jason.
    Ancora ridendo sottovoce, Zhì si sporse oltre la coffa. Le fece il verso, mimando la voce dei locali con un accento il più terribile possibile. «Gah-ah. Contanti o ‘mat?»
    «’Mat, grazie.»
    «Allora sono seicento Troni e settantacinque.» Si guardò intorno, quindi tornò a seguire il suo cogitator da polso. «All’ora, eh.»
    Hahàva abbassò la testa, lottando contro le sue stesse risate. «Il conto lo mandi alla Crociata, di grazia.»
    «Daaah. A chi lo intesto?»
    «General-Comandante Augustus Jr. E. Brash, di Gladiush. Ci pensa lui, non si preoccupi.»
    «Ma vuole anche la ricevuta?»
    «Sì, sì! E i punti sulla carta cliente, grazie.»
    Lo Hypaspista affrontò un dosso di rallentamento, impennandovisi contro; Aurelios si aggrappò alla maniglia di sicurezza, reggendosi per non scivolare giù. La prua tornò a mordere l’asfalto e lo scossone attraversò il mezzo tra improperi e bestemmie.
    «Oy, reggetevi!», urlò Jason.
    «Avvisaci prima!», borbottò Sirio. «Cos’è, sei a scoppio ritardato?»
    «No!» urlò Yarat dall’interno prua. «Lui è solo ritardato.»
    Ièn scrollò le spalle. «Ce ne siamo accorti.»
    Sgranando un cigolio ferroso, il mezzo sterzò di novanta gradi, portando il proprio muso a fronteggiare l’uscita di una corsia di decelerazione. Lì la recinzione stradale s’interrompeva e c’erano due varchi aperti su di una via secondaria, pochi metri al di sotto. Quello che si parava davanti a loro scorreva in discesa, verso una subalterna lingua d’asfalto.
    L’altro varco, invece, era un tragitto d’accelerazione per entrare dal basso sulla Provincialii Via M.49. Diverse auto-vetture lo puntellavano, sparse qui e lì, sia prima che dopo del casello di controllo. La sbarra era tronca, con frammenti sparpagliati lungo il tarmac.
    L’andatura dello Hypaspista rallentò ancora, lanciando scaglionate nuvole di carburante bruciato. Si portò a ridosso del gabbiotto di guardia, costeggiandolo a nemmeno un metro di distanza.

    Ièn sbarcò al suo fianco, scattando in posizione. Alzò il tiro del suo las-fucile al gabbiotto, battendo l’orizzonte da esterno a esterno. Abbassò l’arma, portandone la canna a puntare l’asfalto.
    Dardeggiandogli alle spalle, Aurelios si allungò alla struttura. Alle sue spalle c’era Hahàva, pronta a fornire supporto con l’elevato rateo di tiro del suo Merovech-Pattern d’assalto. Si portò a ridosso del gabbiotto, riparandosi dietro una delle sue colonne portanti.
    Si sporse, attivando la funzione visr-scan del suo elmetto. Un riquadro a ingrandimento si palesò al centro del suo HVD, in linea con i suoi occhi. Guardò la corsia, scandagliando tra le autovetture che erano state abbandonate chissà quando.
    Il rilevatore lampeggiò, mandandogli un segnale d’allerta. Alzò il pugno sinistro, in modo che la squadra trincerata dietro lo Hypaspista potesse vederlo. «Abbiamo del movimento», sussurrò sul canale vox a corto raggio. «Fermi.»
    L’icona di Ikaròs s’attivò. «Ti copro.»
    Imbracciò l’Accatran, portando la mano all’astina di sostegno. Spinse il calcio contro lo spallaccio dell’armatura anti-schegge e si staccò dal gabbiotto. Allungò l’indice alla scocca del grilletto, abbracciando quest’ultimo.
    Con uno squittio, una coppia di pantegane sfrecciò davanti ai suoi occhi. Sgusciarono da sotto una Trabland, zigzagando sull’asfalto basse e veloci. Una si fermò, lo guardò fugace e poi tornò a zampettare verso il lato destro dell’ingresso.
    Aurelios esalò un sospiro.
    «Cessato allarme.»
    «Phrà, dici che sono esplosive?» esordì Ikaròs, sempre sul vox a corto raggio. Lo sentì lottare contro un conato di risata. «Oh, magari ci vogliono attaccare.»
    «Azzeriamole!», s’issò Zhì. Salì sullo scafo dello Hypaspista e scese dall’altro lato, inginocchiandosi con l’arma in posizione di riposo. «Min-prox! Min-Prox! Ad Sagitta Spezzatam, fate venire la pioggia!»
    «Erano solo dei topi», li riprese Sirio, con la voce di qualcuno che era già stanco. «Piantatela di dire stronzate.»
    «Veramente erano ratti.»
    «I topi sono ratti, coglione.»
    Tiber reimpostò la sicura. «A me sembravano dei roditori…»
    «Che», Ikaròs spense il puntatore del suo las-lungo, «sono sia topi che ratti.»
    «Come fanno, scusa? O sono topi o sono ratti.»
    «La famiglia è quella dei roditori, idiota. Il topo è un roditore, il ratto è un grosso topo. Essendo un topo, è sempre un roditore.»
    Il tiratore scelto scrollò le spalle. «Mah, secondo me non è così.»
    «Non è…» Sirio sospirò. «Fa lo stesso.»
    Risistemandosi la tracolla dell’Accatran attorno al collo, Aurelios marciò fino al gabbiotto. Scavalcò la recinzione di sicurezza, spingendosi sull’interno della corsia di decelerazione. I frammenti della sbarra erano sparpagliati davanti e subito oltre lui. Da com’erano disposti, era stata spezzata da qualcuno in uscita. Una trablant, forse, lanciata a tutta velocità.
    «E comunque erano pantegane», borbottò sul canale vox della squadra.
    «Che sarebbero?»
    «Grossi ratti.»
    «Quindi dei topi», commentò Zhì, raggiungendolo. «Proprio come dicevo io… aspetta, tu com’è che sai che erano pantegane?»
    La porta del gabbiotto era rimasta chiusa. O il metronotte non si era presentato al lavoro, oppure quando era scappato aveva chiuso la stazione dietro di sé. Girò la maniglia, ma non ottenne niente. «Hanno più carne. Ottima, molto tenera. Ai ferri sa un po’ di pollo.»
    Zhì incassò la testa tra le spalle. «Phrà, onesto.»
    C’era una batteria di cogitator all’interno del gabbiotto. Forse potevano essere utili. Sferrò una gomitata al vetro sopra alla maniglia, frantumandolo di netto. Si sporse all’interno del vetro andato in pezzi e cercò la serratura, trovando un meccanismo a cipolla.
    Va bene…
    Indietreggiò d’un passo.
    «Ah, grazie all’Imperatore» borbottò Zhì, affacciandosi. «Hanno l’ausiliario a dinamo.»
    «Togliti, Zì.»
    La compagna di squadra non ci pensò due volte, scartando a sinistra. Caricando il colpo con il suo peso, Aurelios schiantò un calcio sulla porticina. I cardini cedettero, lanciando uno storto urlo ferroso, e l’impeto portò l’uscio a crollare sul pavimento. Aurelios si chinò a raccoglierlo e lo gettò alle proprie spalle, facendolo carenare contro l’asfalto.
    Con noncuranza, Zhì entrò nel gabbiotto. S’inginocchiò davanti alla batteria di computer e afferrò la manovella dell’alimentazione ausiliaria. Le fece fare una dozzina di giri prima di bestemmiare sottovoce, mettersi l’arma a tracolla e raddoppiare i suoi sforzi.
    Il sistema s’illuminò, attivando una dozzina di spie luminose. Con un fruscio di ventole, il monitor centrale passò dall’essere buio all’avvio del BIOS di sistema. Stringhe e linee di Lingva-Technis fluirono sullo schermo per alcuni secondi, cedendo il passo ad una schermata iniziale.
    «Yay», esultò Zhì, chinandosi sulla batteria. Dal suo zaino tattico trasse una serie di compatte, nere schede informatiche. Tutte erano armate del Rites VSB, con un cavo d’allaccio. Piantò lo spinotto in una porta d’accesso e poi digitò qualcosa sul suo cogitator da polso. «Ma che bello, hanno una cronologia delle videocamere.»
    «Scarica tutto e poi muoviamoci.»
    «Aspetta, dopo.»
    «Non restiamo troppo allo scoperto.»
    Lei annuì. «Sì, ma hanno una mappa stradale. Quella può servirci.»



    AAC: Arma Anti-Carro.
    Min-Prox: Minaccia Proxima, Danger Close.

    Ad Sagitta Spezzatam: Missione fallita, livellate la zona. DISTRUGGETEH TUTTOH!
     
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    Aurelios sussultò. Si abbassò in ginocchio, spianando l’arma e portando subito l’indice alla scocca del suo grilletto. Un boato sopraggiungeva da sud.
    Il vox di Tiber salmodiò un lungo segnale di Via Libera, subito ripetuto dall’operatore sul loro canale di squadra a onde-corte: «Ping positivo, state calmi. È dei nostri.»
    Rasoterra rispetto alla Provincialii, una sagoma affilata e appuntita stava per sorpassarli. Immobile dov’era, Aurelios aguzzò la vista; il nuovo arrivato era inclinato sul suo asse, e il suo regime di volo sfiorava il super-sonico.
    «Woh-oh-oh!»
    Era grigio e azzurrino, con ali tagliate a lama di spada e una prua puntuta. Si raddrizzò cinque secondi prima di superarli, solo per imbardare in ambo i sensi e passare oltre. I suoi commilitoni sullo Hypaspista scossero i pugni, gridando entusiasti.
    «Vai! Vai, vai, vai!» urlò Tiber, alzando il proprio Accatran in segno di saluto. Sirio scoccò un pristino, preciso saluto militare all’indirizzo del caccia, pur facendo caso a che non durasse molto. Il pilota non l’avrebbe comunque potuto vedere.
    Jason s’issò per stringere la bandiera issata sulla prua del suo carrarmato. Per stupida che potesse sembrare, e quanto li rendeva dei bersagli, era un’ancora di salvezza in casi come quelli. Sia il Severan che gli aurelici avevano molti mezzi e pezzi d’equipaggiamento in comune ai loro.
    Il fuoco amico non era mai troppo lontano.
    Hahàva si batté un paio di colpi sullo spallaccio, mentre Zhì alzò due dita, come a volersi mettere in posa per un auto-scatto.
    «Ah, un GY-Hurahan...»
    «Yuraghan», scandì Ièn. «Si dice Yur...»
    Hahàva attivò il suo collegamento: «Chiudi la bocca, Libri!»
    Due sibili calpestarono il suo commento, sciabolando a mezz’aria dopo essersi staccati dalle ali del jet d’attacco aria-terra. Schizzarono oltre il suo profilo, all’orizzonte occidentale, lasciandosi alle spalle striature di scintille bianche e grigie. Il velivolo virò di rientro, innescando i post-bruciatori lungo un’ascendente curva stretta che, in pochi secondo, lo portò a ritornare nella direzione dalla quale era venuto.
    Li sorpassò in ritorno pochi istanti dopo, oscillando di nuovo. Molto più in lontananza, verso nord-est, dei boati accesero l’orizzonte. Due puntini luminosi, perlomeno quelli visibili dalla loro posizione, s’accesero e creste di fumo cominciarono a salire verso il cielo.
    Le esultanze ripresero ancora più forti, salutando i bersagli del jet con pugni agitate e grida. Aurelios si scoprì a ghignare sotto il passamontagna. Un attacco dell’Aeronautica Imperialìs era, nove volte su dieci, un buon segno; voleva dire che avevano le spalle coperte, qualcuno vegliava su di loro e aveva a disposizione i calibri auto-propulsi, i missili aria-terra e le munizioni pesanti.
    Ben presto, il rombare del jet scomparve dal cielo.
    Le creste di fumo erano cresciute, lì lungo l’orizzonte occidentale. Ripercosse i propri passi fino allo Hypaspista e si arrampicò sullo scafo. Afferrò una delle maniglie di sicurezza, affiancandosi allo scudo balistico della brandeggiabile.
    Intento a scrutare, Jason registrò il suo ritorno con un cenno del capo. Scavalcato il bordo, Aurelios si addossò al lato interno, spostando la mitragliatrice. Si piegò sulle ginocchia, sganciando un paio di binocoli magnificanti da un allaccio in cuoio.
    Tornò in piedi, alzando il binocolo perché fosse in linea d’aria con i suoi occhi. La scheggia-cogitator al suo interno s’interfacciò con il suo HVD-Visr, allungando la sua vista. Solo uno dei due incendi era a portata, però. Il più vicino, che cresceva avviluppandosi attorno ad una massiccia autocisterna. Bruciava furibonda, spingendo in alto un continuo vomito di fumo nero.
    «Ma allora ce l’hanno una pompa...»
    «Fammi vedere un po’...»
    Disconnesso il binocolo dal proprio visore, Aurelios lo passò al capo-carro. Con l’indice della sinistra gli indicò dove guardare. «Lì, vedi?»
    «Sì… che cretini, così allo scoperto...»
    Sbattendo le palpebre, Aurelios si guardò intorno. Le fiamme l’avevano abbacinato, ma non era quello il problema; l’autocisterna era stata colpita mentre cercava d’inserirsi in una strada secondaria, il cui casello ora ardeva tanto quanto. Quell’area era bloccata; i Severan si sarebbero mossi per investigare, ammesso che non fossero già a conoscenza dell’attacco aereo.
    «Ci dobbiamo muovere», esordì scavalcando il bordo della cupola. Attraversò il fianco dello Hypaspista in scivolata, spingendosi sull’asfalto con un colpo di reni. Si stava preparando ad attraversare la strada, verso il gabbiotto, quando alle sue spalle la torretta del carrarmato si animò con una nenia metallica; si stava orientando alla volta dell’autocisterna in fiamme.
    Dai posteriori tubi di scappamento fuoriuscì un doppio, addensato sbuffo di promethium usato. «Abbiamo il motore in caldo», gli disse Jason, sganciando la sicura della brandeggiabile. «Quindi vedete di fare in fretta, prima che qualcuno ci veda.»
    «Ricevuto.»
    Scattò al gabbiotto. Si affacciò, tenendo una mano sulla soglia. Zhì stava spingendo la manovella dell’alimentazione a dinamo, mormorando un fiotto di imprecazioni.
    «Come sei messa?»
    «Questo stupido affare ha meno ram di mia nonna.»
    Ram? «In minuti, Zhì.»
    Lei lasciò la manovella all’opera della destra, indicandogli il monitor principale con l’indice della destra. Una barra di stato la dominava, ma era scritta in caratteri Haronici. In cerca di un dettaglio utile, Aurelios aggrottò la fronte.
    «Lo schermo è diventato blu, Zhì.»
    «Di nuovo?!» Lasciò la manopola e si chinò sul monitor, sferrandogli un colpo. La videata blu sfarfallò via, rimpiazzata dal ritornare della barra di caricamento. Da 48% era appena passata a 51%.
    «Minuti, Zeta. M-i-n-u-t-i.»
    «Dieci, almeno.»
    Aurelios si ritrasse dalla porta e la sua mano scattò all’impugnatura dell’Accatran. «Fai in cinque. Anzi, no: tre.»
    «Non dipende da me, è questo cogitator che risale al millennio scorso!»

    Disegnando una doppia curva a elica, la corsia di decelerazione scendeva di quindici metri. Un secondo posto di blocco delimitava l’ingresso all’arteria subalterna, che poi proseguiva dritta verso occidente. Arretrato rispetto alla seconda sbarra c’era un parcheggio libero, coperto dalla stazza della strada. Era irto di autovetture abbandonate, ma non c’era anima viva.
    Sulla destra della guardiola inferiore, invece, la strada costeggiava un marciapiede alberato. Al di là, alcuni moduli abitativi si delineavano non troppo in lontananza, alle spalle di semplici, modeste recinzioni di ferro a rete.
    In caso d’attacco, non sarebbero stati dei ripari efficaci.
    Lasciò Ikaròs e Sirio a coprire Zhì mentre quest’ultima continuava a copiare i file della batteria di cogitator del gabbiotto e, con Hahàva e Ièn al suo fianco, entrò nel camminamento pedonale che portava al piano inferiore della strada.
    Accelerò il passo, sentendo i propri passi echeggiare. Abbassò la testa per non sbattere contro l’architrave. Il pavimento era un piano zigrinato di metallo, sul quale ancora c’erano delle macchie di pioggia. Acqua di ristagno, con ogni probabilità. Aveva piovuto prima del loro sbarco a Chernobasa. Ne scavalcò una con una buona falcata, accostandosi alla ringhiera esterna ad arma spianata.
    Nessun ostile in vista, da quella parte.
    Appeso tra due sbarre di sostegno, non più di tre metri più avanti rispetto a lui, c’era un pannello di controllo. Lo segnalò ai suoi due compagni e accelerò il passo. Lo raggiunse e s’abbassò su di un ginocchio, spingendo il calcio del proprio Accatran sotto l’ascella.
    Di riflesso controllò lo stato della cella energetica, annuendo soddisfatto alla vista della spia verde. Fin lì, tutto bene.
    «Ièn?»
    «Ci sono.» Il tiratore scelto s’affacciò sul pannello, gettandosi il las-fucile a tracolla. Pigiò il pulsante d’accensione e lo schermo, prima del tutto nero, si ravvivò in pochi attimi, presentandogli una schermata d’orientamento.
    Aurelios la sbirciò dalla sua posizione: era scritta in alfabeto Haroniko, con tutti quegli strani caratteri che usavano e li facevano suonare un po’ troppo ubriachi.
    Schioccando la lingua compiaciuto, Ièn fece un passo indietro: «Chyz, ma che bello. Questo aggeggio funziona ancora...»
    «Non chiamarla, Libri!», sussurrò Hahàva sul canale a onde corte.
    «Guastafeste...»
    Non ha tutti i torti. Squadrò il circondario da sinistra a destra, in cerca. Considerando l’attacco aereo appena concluso, i Severan potevano mobilitare servo-teschi o altri droni. Oppure inviare delle pattuglie, se ce ne erano in zona.
    Tutto poteva accadere.
    Dopo aver controllato la strada al di sotto del camminamento, Aurelios si riportò in piedi. Assestò bene le mani lungo il suo las-fucile e, di nuovo, spazzò l’area sottostante e avanti a lui, scorrendo da un estremo all’altro con passaggi lenti, metodici; al di là della maglia formata dalle barre di sostegno, la vista da lì scendeva sull’altro tornante della strada. Appena oltre quello, c’era un tratto di subalterna asfaltata. In fondo, sul ramo destro, spuntavano più delineate le case con i loro recinti.
    Era il caso di portare lo Hypaspista laggiù, così da dargli un po’ di copertura contro gli assalti di eventuali incursori alati. Alzò tre dita, tenendole sospese per un breve momento. Spinse il pollice contro il palmo due volte e riportò la mano all’astina dell’Accatran. Possibili civili in avanti, arcata dalle Ore Tre fino alle Ore Sei, usiamo molta cautela.
    L’ultima cosa che volevano, al di là di prendersi un servo-assalitore suicida addosso, era infliggere ulteriori disgrazie a quegli sfortunati. Maledetti aurelici bastardi, loro e i Severan!
    Scalpicciando, Hahàva lo superò e gli diede un colpetto sulla spalla; continuò per sei metri, arrestandosi dietro ad una bullonata colonna di sostegno. Ci s’impuntò contro, sporgendosi prima a destra e poi a sinistra, in cerca di possibili bersagli. Si ritrasse, appoggiò un ginocchio sul pavimento e gli comunicò a gesti un Via Libera, Nessun Ostile.
    «Ièn, vai pure.»
    Il tiratore scelto dardeggiò con lo sguardo al pannello di controllo. Sul fianco esterno, sopra ad una manichetta, era impressa la runa del nucleare. Subito accanto, un’etichetta srotolava una mezza infinità di incomprensibili dati in Lingva-Technìs.
    Avvertimenti e rischi, probabilmente. Evitare una vicinanza prolungata, non manomettere l’alimentatore senza essere stato formato e quindi autorizzato dal Culto di Marte, non masticare i cavi...
    «Grazie, Omnissiah, per le batterie atomiche...», canterellò tra sé e sé. Ah, allora era proprio come in Marconia, laggiù nella Frangia Orientale. L’atomico non deludeva mai.
    «Ci stai capendo qualcosa?»
    «Stando a quel che mi dice...» borbottò Ièn picchiettando con l’indice su di un’icona pulsante. «Ci troviamo a Proartjomskaya Via-Staz.»
    «Buono a sapersi.» Ma perché avevano nomi così impronunciabili? «Ma più conciso. Ti dice qualcosa che ci è utile?»
    «È un pannello informativo, sergente, non un registro demografico.» Arretrò, restringendo la videata con un colpetto d’indice e medio. La loro posizione, in realtà quella del pannello, lampeggiava tenue sotto un percorso rettilineo e lungo, che andava da una fermata dopo dello Zavtacamoil fino all’inizio della Pronvincialii. Si avvicinò, inginocchiandosi dietro alla cornice di bronzo del pannello.
    «Quindi, se seguiamo questa subalterna...»
    Ièn piantò il dito sullo schermo. Seguendo il tracciato, lo spostò verso il bordo sinistro del pannello. «Sì, ma siamo scoperti.»
    Hahàva si fece sentire sulle onde corte: «Come sulla Provincialii, insomma.»
    «Grossomodo. Di contro, saremmo più in basso», commentò il tiratore scelto, sporgendosi all’esterno. Il suo visore si polarizzò, passando da uno scuro verde oliva ad una completa tonalità di nero. «Più difficili da individuare, ma colpire qualcuno sulla strada sarebbe un gran casino.»
    «Chiaro. Deviazioni utili?»
    Ièn batté indice e medio sulla coscia e Aurelios s’irrigidì. Accucciato dietro la ringhiera della parete, piantò l’indice libero sul pavimento, tracciò un circolo due volte e poi ci picchiettò sopra con il medio. Dov’è, se hai individuato?
    Ièn si distanziò dal pannello, passandogli accanto a spalle basse. Si fermò alle spalle della quarta colonna di sostegno e ci si addossò con lo zaino, accostando il proprio Accatran di precisione al petto.
    «Lo giuro sul Trono, se sono di nuovo dei ratti...»
    Pantegane…
    Ièn tamburellò con il piede sulla zigrinatura e pian piano si sporse, piegandosi su di un ginocchio. Si appoggiò al pavimento per avere equilibrio, inforcando l’arma contro lo spallaccio. Allineò il puntatore all’occhio, attraverso il visore, stringendo il grilletto senza, però, tirarlo.

    Ecco, sì.
    Un ronzio.
    Veniva da oltre la ringhiera, ma non era alto e acuto. Ovunque stesse andando, il servo-teschio si muoveva a lento regime.
    Affiancando il tiratore scelto, Aurelios accennò ad Hahàva il cancelletto di ferro che tagliava in due il percorso pedonale. Lei ci puntò contro la propria arma, poi l’abbassò. Colto il messaggio, scosse la testa tra sé e sé e ci si incamminò incontro, stando bassa e lenta.
    «Zhì, come sei messa?»
    «Ho quasi tutto.»
    «Buono.» Aurelios deglutì. «Abbiamo compagnia. Riferisci a Jason, digli di scendere tra un minuto.»
    «Ricevuto. Vi mando il mio?»
    «No, tienilo sulla strada.»
    «Capito.»
    Il servo-assalitore emerse dalla penombra. Era un comune modello blindato, con una luce fissata tra le mandibole e una piccola mitragliatrice a nastro issata lungo la mascella sinistra. Stava risalendo la strada, scandagliando il percorso con movimenti continui e fluidi.
    L’icona di Ièn si rianimò: «Bersaglio in vista...»
    All’approcciarsi di Hahàva al cancello, il servo-teschio s’immobilizzò. I suoi occhi elettronici ebbero un guizzo, puntando in alto. Sbatté le palpebre e le lenti passarono da una tinta onice ad un color carminio, a segnalare che aveva attivando la visione infrarossi.
    «Ièn!», scandì Aurelios, lanciandosi in avanti con uno scatto che rimbombò sul pavimento. Si tenne sul fianco, così da non invadere l’angolo di tiro del commilitone. «Annichiliscilo!»
    L’Accatran del tiratore brillò, esplodendo due dardi di luce rossa. Il servo-teschio scartò in basso un mezzo secondo prima sottraendosi al primo colpo, che esplose contro il metallo sprizzando una colata di scintille. Il secondo dardo lo raggiunse presso l’orbita destra, che esplose in un fiotto di schegge di vetro, circuiti tranciati e lapilli incandescenti.
    Uno scatto metallico rimbrottò nella galleria pedonale e la sua mitragliatrice aprì il fuoco; tuffandosi a terra, Aurelios imbracciò il proprio las-fucile e rispose al fuoco, tirando il grilletto. Sopra alla sua testa, una raffica di calibri leggeri sgranò contro il pannello di controllo. Rimbalzarono a terra, tintinnando acuti tra gli schiocchi di frusta esplosi dal suo Accatran.
    Ièn scartò a sinistra e il bordo della colonna, appena abbandonata, esplose in svariate nubi di marmo e roccia polverizzata. Spazzò l’area avanti a sé con il fucile, riportandolo in posizione di tiro: un lampo rosso sgusciò fuori dalla canna, riverberando uno strappo supersonico a mezz’aria. Il servo-teschio incassò il colpo, gemendo una litania di statica. Entrambi i suoi occhi esalavano serpentine di fumo grigio; senza più un sistema di puntamento a guidarle, la torcia e la mitragliatrice si persero a tracciare ghirigori in giro, senza alcuna precisione.
    Aurelios si alzò. Imbracciò l’astina del suo las-fucile, allineando il puntatore al drone accecato. Tirò il grilletto una, due e poi tre volte. Dalla calotta cranica del drone esplosero scintille e fiammelle e, roteando su se stesso, precipitò a terra.
    Rimbalzò su di un gradino, seguito dal ticchettio di un martelletto d’innesco rimasto senza munizioni da armare.
    Scattando al cancelletto, Aurelios lo raggiunse nell’attimo in cui Hahàva piantò un colpo di laser a bruciapelo contro la serratura.
    Il lucchetto saltò fuori dagli innesti, rimbalzando sul pavimento; caricando il colpo, Aurelios sferrò un poderoso calcio contro le sbarre. V’impattò contro di piatto, mettendoci dietro tutto il suo peso, e il cancello si spalancò, andando a sbattere con fracasso contro la fotocellula rilevatrice a destra. Con Hàhava al seguito, il sergente lo scavalcò in volata.
    Il maledetto trillava i suoi rantoli, lì dov’era precipitato. «Piccolo bastardo...», borbottò piantandogli il piede sulla tempia. Spinse con forza, spappolandolo contro il metallo del gradino.
    «Potevamo prendere la scheda-dati...»
    Cazzo, è vero. Ha ragione. «Ah, sì.»
    «Non ci hai pensato.»
    «No...»
    Hahàva spazzò via con il piede i resti del servo-teschio. «Capita. E adesso?»
     
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    Non ho ancora letto tutto, ma sono a circa metà
    Complimenti per la grammatica e la forma, molto curata sia per le descrizioni tecniche che per le varie espressioni “tipiche” dei personaggi
    Leggerò il resto appena possibile!
     
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    Mi accorgo del commento in super-ritardo, al mio solito.

    Allora, grazie! Vai tranquillo, leggi quando hai voglia. Per le espressioni, mi piace l'idea che da un lato siamo alle prese con un esercito professionista, dall'altro abbiamo a che fare con un'insieme di armate che vengono da settori e regioni diverse.
    Insomma, già con il Basso Gotico capirsi è difficile.
     
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    Capitolo I-F
    Ièn Cariad




    +++Segmentvm Obscvrvs
    Hera-Amiir Sector

    Espansione di Zaqqurava
    Sistema Stellare di Hervara

    Hervara IV-B, Mondo-Civilizzato
    Continente di Invyyere

    Portal Danòrra, 201 chilometri SO da Negemyn
    M42.Y022+++


    Lo Hypaspista si fermò sotto l’arcata. Un verso metallico riempì la galleria, sbattendo meccanico e ferroso contro le grigie pareti a scivolo sulla strada.
    In capo a pochi secondi, il mezzo corazzato riportò l’obice in torretta ad alzo zero. I freni d’ancoraggio lo fissarono in posizione, scandendo una profonda nota contro il silenzio che regnava al di là dell’uscita; dai suoi tubi di scappamento fuoriuscì una duplice colata di vapori di Promethium, stinti nella controluce delle torce pubbliche, issate in file gemelle presso le pareti d’uscita.
    Perlomeno c’era ancora corrente, lì.
    Aggiustando la presa dell’Accatran, Ièn lottò per reprimere uno sbadiglio. Sbatté un pugno sulla propria coscia e si risollevò, fiancheggiando la sinistra dello Hypaspista a testa china. Si mantenne stretto presso il corrimano, dardeggiando con gli occhi ai lati.
    Un’imboscata li avrebbe visti esposti sulle ali e con solo una via di ritirata. Dovevano sgomberare quel punto vulnerabile il prima possibile.
    Appoggiò una mano alla spalla del sergente Quarta per avvisarlo della sua presenza. Impuntandosi su di un ginocchio, portò il fucile a poggiare sulla sbarra inferiore del corrimano e spaziò lungo un’arcata che andava dalle Otto Notturne alle Ore Tre. Movimenti brevi e controllati, proprio come gli era stato insegnato a Camp Martes. Brevi e controllati.
    La spianata esterna si allungava tra due rostri di moduli abitativi, a prima vista deserti. Molte autovetture erano state lasciate nei loro stalli, paralleli alle abitazioni. La linea destra delle case s’interrompeva prima della sua controparte, figurando un negozio di alimentari con pareti in legno e porte a vetri.
    Più avanti, piccolo anche all’interno del reticolo di tiro, un edificio a tre piani dominava sulle case. Giaceva appena sulla sinistra, con un viale alberato che portava ad un colonnato d’ingresso.
    Sopra all’architrave dominava una scritta in Haronico, ma dal balcone pendevano due bandiere traditrici. Una era quella del Dominio Severan, mentre l’altra era una bandiera aurelica a colori inversi. A vederla, Ièn carezzò il grilletto: era lo stemma che usava la soldataglia di Ioannìs.
    Forse si erano barricati all’interno, oppure avevano voluto segnalare il loro possesso dell’edificio alla povera cittadinanza di Hervara. Quale che fosse la loro ragione, la presenza delle bandiere era una prova della loro possibile presenza in loco.
    Ammesso che non fosse una trappola...
    Segnò al sergente Quarta la posizione di quell’edificio e tornò a tenerlo sott’occhio. Era alto dodici metri per tre piani, con un solaio in cima. C’era un rosone rosso, blu e verde in centro all’angolo acuto delineato dal tetto.
    «Ricevuto», sussurrò Quarta, affiancandolo. Lo batterono per diversi attimi, scandagliando la sua facciata in cerca di varchi o angoli di tiro. «Che dice la scritta?»
    «Ljud’ domusva.»
    «Sii meno astropatico, se ti è possibile...»
    Gli venne da ridere, staccando l’occhio dal mirino. Certo, sì. Il sergente aveva pienamente ragione. «Uhm, Casa del Popolo.»
    «Ergo quod est?»
    Anche lui doveva provare della stanchezza, perché a Chernobasa ne avevano viste altre di Case del Popolo. Più d’un paio, a dir la verità. Erano sia residenze ufficiali che locali caserme delle forze dell’ordine, fossero queste militi urbani o vigili del fuoco. «Ritrovo ufficiale, signore. Pompieri, guardia locale...»
    Forse avevano una piccola cisterna privata nel sotterraneo. Avrebbero potuto approfittarne per fare il pieno allo Hypaspista.
    «Chiaro. Tracce del nemico?»
    «Nessuna.» Per ora. Se si stavano nascondendo, lo stavano facendo bene. Si spostò dalla sua sinistra alla destra, scendendo più in basso. Il corrimano proseguiva ancora, fermandosi agli inizi dello scivolo, ma al suo sfociare nella strada sarebbe stato ancora più vulnerabile.
    Si fermò, ripristinano in pochi attimi la sua posa. Sia le spalle che le scapole gli dolevano, pulsando pian piano sotto le bretelle dello zaino tattico. Chiuse gli occhi, abbassando la testa. Solo un secondo, non gli serviva tanto di più. Un momento per riprendere fiato e concentrazione, poi...
    Il sergente gli allungò una mano sulla spalla, dandogli una solida pacca. Ièn sussultò, agguantando l’astina dell’Accatran.
    «Oy, riguardo a prima: sei stato bravo, Ièn.»
    Accettò il complimento del sergente Quarta con un cenno del capo, senza distogliere il proprio sguardo dall’aprirsi della strada subalterna. Riportò il puntatore sull’ingresso dell’alimentari, battendolo dal basso verso l’alto. Lì sarebbero stati molto scoperti, ma poteva esserci un retrobottega da controllare.
    Un altro sbadiglio lottò per venire a galla, costringendo Ièn a deglutire. Strabuzzò gli occhi, cercando di sbattere via quel sentore di stanchezza e torpore. Da quanto tempo non dormiva? Le operazioni di combattimento a Chernobasa li avevano tenuti alzati per ore e ore, se non giorni interi, poi era venuto l’ordine di lanciarsi in avanti e inseguire i Severan in ritirata.
    Quindi... era un giorno? Di più? No, era almeno un giorno. Anzi, sì. Era di sicuro più di un giorno, forse già un dì e mezzo, se non due.
    Oppure no?
    «Non ti deconcentrare.»
    «Colpo di sonno...»
    Il sergente Quarta non replicò; rimase in silenzio, preso dal pattugliare la strada subalterna da dietro la ringhiera. Ad un certo punto abbassò il suo las-fucile e aprì un taschino dell’anti-schegge, dal quale trasse un tubetto cromato. Lo stappò, facendo rotolare fuori una piccola pillola rossa e bianca. Gliela porse mentre riprendeva il suo piantone.
    «Prendi e butta giù.»
    Pochi attimi dopo aver ingollato la pillola, Ièn sentì i muscoli del suo corpo contrarsi con uno spasmo ferreo; strinse i denti, temendo di spaccarseli gli uni sugli altri, e allontanò l’indice dalla scocca del grilletto per non farsi partire un colpo accidentale.
    Rogal Dorn, odio queste schifezze! Lo spasmo durò dieci secondi e poi la sua presa cominciò a scivolargli di dosso. Strabuzzò di nuovo gli occhi, mettendo a fuoco la strada. Le Kepopho erano tremende; il calcio iniziale sembrava quello di un crampo, ma esteso a tutto il corpo. Dopo che era passato, il loro effetto energizzante proseguiva per ore e ore, posticipando qualsiasi sensazione di stanchezza o esaurimento. Ma non le faceva scomparire.
    Per qualche tempo, erano messe a riposo. Sarebbero tornate più tardi, la loro intensità maggiorata da qualsiasi altro sforzo avesse da compiere.

    Rimasta a coprire la retroguardia, Zhì era sulle scale alle loro spalle; occhieggiò ai resti del servo-teschio e ci si accovacciò davanti. «Era proprio necessario spappolarlo così?», esordì sul canale a onde corte, animando la sua icona all’interno dello HVD.
    Ièn esalò un sospiro. Riaprì la sua parte della comunicazione con un colpetto degli occhi: «La prossima volta lo tiro giù con uno schiaccia-mosche, ey?»
    «Ah-ah-ah.» La compagna di squadra s’issò in piedi. «Guarda che non posso recuperare niente da questi frammenti.»
    A quel punto, Ièn alzò gli occhi al cielo. Che disdetta, davvero. «Facci pace e chiudi la bocca, allora.»
    Hahàva lo affiancò, disponendosi su di un ginocchio e incassando il Merovech addosso allo spallaccio. «Ce l’ha con me, Libri.»
    «Ma chi cazzo ti ha chiesto niente?»
    Markhairena allungò due dita al fondo della strada, pulsando tre volte il gesto. Rafforzando la sua presa sull’Accatran con una mano avvolta all’astina del las-fucile, Ièn si slanciò in avanti.
    Tagliò a sinistra attraverso lo spiazzo, portandosi al fianco di un cassonetto tinto d’arancione e blu. Quasi ci sbatté contro, tallonandolo con la spalla libera. Rivolse un cenno di Via Libera ad Hahàva, quindi prese il fianco del cassonetto e spianò l’arma.
    Lo Hypaspista ruggì un tumulto di motori al promethium e scalò di marcia, incrociando a lento regime lungo la discesa. Si portò dove la discesa incontrava la strada e sterzò, alzando un gemito meccanico che rantolò in lungo e largo nel silenzio. La sua manovra in retromarcia lo portò a rivolgere la prua, e l’obice, alla figura della Casa del Popolo.
    Ancora nessun movimento sospetto lungo l’asse occidentale. Si snodò da un lato all’altro, in attesa che qualcosa o qualcuno uscisse allo scoperto.
    Trasalì al cigolio di un uscio che si apriva. S’irrigidì contro il fianco del cassonetto, infilando il corto e compatto calcio dell’Accatran sotto l’ascella e portando il dito alla scocca di tiro. Sistemò la propria presa, impuntandosi contro il proprio spallaccio; salendo in ginocchio, si orientò all’indirizzo del suono che aveva appena attraversato la strada.
    C’era una porta aperta, adesso. Era l’ottava sulla linea destra, quella interna, dal delta della galleria. Sulla soglia, ora, pendeva timidamente una figura.
    «Abbiamo una visuale.»
    Il Vox di squadra tacque per un lungo secondo e la voce del sergente Markhairena lo seguì: «Ostile o amico? Che vedi?»
    Ièn allineò il destro al puntatore e ingrandì sulla figura temeraria, trovandosi a guardare un uomo stempiato e grigio. Era un locale. Si esponeva per metà da fuori dalla porta.
    «È un civie. Uomo, cinquantina.» Se non fosse stato per qualche lineamento più Haroniko che Elysiano, avrebbe potuto dire che somigliava molto a suo nonno. Sul suo viso c’era la stessa espressione di chi ne aveva viste un paio di troppe, ma sapeva che c’era dell’altro in arrivo.
    Aurelios scosse il capo. «Signore, resti al riparo!»
    Ubbidendo, l’uomo scomparve dietro al suo uscio. Ièn non rilassò la presa sull’arma, aggiustandone l’appoggio sulla spalla per essere più comodo. In contrasto al comando che aveva ricevuto, il cinquantenne riapparve sulla soglia.
    Ora, stretta tra le mani, aveva una bandiera dell’Imperivm. Niente più che un rettangolino di stoffa con i colori tradizionali, che in centro mostravano l’Aquila Bicefala della Super Sacra Terra e del Pater-Mondo Forgia Marte. La spiegò davanti a sé, scuotendola con molto vigore.
    «Dorn, si sta mettendo a rischio...», sussurrò Jason dalla cupola. Il capocarro allineò la brandeggiabile perché fronteggiasse la strada, quindi disinnescò la sicura.
    «Ièn, digli di tornare in casa!», scandì il sergente Markhairena. «Così finirà per farsi ammazzare, Sacra Terra puttana...»
    Dopo aver controllato i propri angoli, Ièn sbracciò all’indirizzo del locale. «Paan, zrasse! Yiite u v’domu! Je vnimanyy!»
    «Soldatii!», fu la replica che gli diede. Nella sua voce c’era un calore, un senso di sollievo, che Ièn sentì sulla propria pelle. Era felice, anche se non riusciva a mostrarlo, di vederli davanti a casa sua. «Varvarii je itame! U’ Ljud’ Domusve
    «De?!»
    «Taam!», insistette, puntando lo sguardo alla Casa del Popolo. «Premochi!»
    «Ièn?»
    Il tiratore scelto chiuse gli occhi, respirò attraverso il passamontagna e impuntò il las-fucile contro lo spallaccio, riportando il puntatore all’altezza della Casa del Popolo. «Dice che gli stronzi si sono ritirati nella Casa del Popolo.»
    Il Vox ad onde corte calò nel silenzio. Una sciabolata ferrosa attraversò la strada, con Jason che orientò la brandeggiabile sull’edificio. «Allora azzeriamoli.»
    Vide Quarta affiancare Markhairena.
    «Non credo che il nostro arrivo gli sia passato inosservato. Se non ci è arrivato un colpo di contro-carro, può essere che non ne abbiano.»
    Oppure stanno aspettando...
    Aurelios gli fece cenno di allungarsi dal civile. Ignorando le proprie spalle indolenzite, Ièn spiccò uno scatto verso la porta aperta. Si barricò dietro un cassonetto sull’altro lato della strada, aspettando una scarica di fucileria nemica che non arrivò.
    «Signore!», esordì all’indirizzo dell’uomo. «Dove sono? E chi sono?»
    «Si sono barricati lì dentro, ma il loro carrarmato è senza carburante!»
    L’aveva detto con singolare soddisfazione. «Fermo?»
    «Sì, morto e fermo. Gli abbiamo dato acquavite invece di carburante.»
    Dovette controllarsi per non finire piegato in due dalle risate. Comunque, abbassò la testa e lottò contro gli spasmi d’ilarità. «Aurelici o Severii?»
    «Aurelici, i traditori! Sono venti, o qualcuno di più
    Con il cassonetto ancora a coprirgli le proprie spalle, Ièn si volse alla sua squadra. Era rimasta disposta dietro lo Hypaspista, che affrontava la strada di prua, e al di là del corrimano interno. Dalla loro posizione alla Casa del Popolo, la linea di tiro era obliqua, ma non troppo svantaggiosa.
    Ma se l’uomo non stava mentendo, e pareva onesto, avevano un grosso punto a loro favore: gli aurelici non potevano muovere il loro mezzo corazzato, e poteva darsi che volessero prendersi il loro per poter scappare via, o fare un pieno d’emergenza.
    Se avessero avuto armi anticarro, non era loro intenzione usarle.
    Di contro, avrebbero sparato a tiro alzato. Non era la maniera più precisa e funzionale, ma potevano cavare un ragno fuori dal buco. Riferì quanto gli era stato detto dal civile e le onde corte esplosero di risate e sbuffi trattenuti.
    Aurelios si schiaffeggiò la coscia. «Per l’Imperatore, amo questa gentaglia!» Alzò un pollice all’uomo, che rispose con entusiasmo. «Tantu, fantastico! Horoshi! Horoshi, tjak?»
    «Qarosho», lo corresse Ièn.
    «Non rompere i coglioni.»

    Il motore del loro Hypaspista si rianimò con un ruggito sommesso. Scalò in avanti, sbattendo i cingoli contro la strada asfaltata. La squadra si riallineò alle spalle della poppa, stando china per non esporsi al tiro nemico e con le armi pronte a fare fuoco.
    Come il mezzo prese ad incrociare, Hahàva e Markhairena raggiunsero Ièn presso il cassonetto. Si schierarono ai suoi lati, il tempo necessario ad un velocissimo controllo delle proprie armi. Fatto un segno di Via Libera, Markhairena si slanciò alla porta aperta.
    L’uomo si fece da parte per farli entrare.
    «Permesso...», mormorò il sergente, abbassando il capo per non sbattere contro l’architrave. La casa s’apriva sul salotto, con un singolo apparecchio televisore montato su di un mobile in syntho-legno. Al di là di un divanetto giallo e qualche tappeto fissato sulle pareti, la sala non aveva molto da offrire né agli ospiti né ai suoi abitanti.
    L’uomo li precedette, conducendoli ad una porta di legno. Dava sulla cucina, modesta tanto quanto il salotto: un piano cottura con tre fuochi a gas e un tavolaccio di legno, con delle basse panche attorno. Ièn si spostò a destra per lasciare passare Hahàva, che entrò come retroguardia.
    «Venite, venite!», ribadì il cinquantenne. In cucina c’era il resto della sua famiglia, assiepata dietro un piccolo frigorifero. Una donna della sua stessa età e due bambini, forse undicenni. Fecero il segno dell’Aquila Imperiale a vederli.
    La spia di statvs sul frigorifero, notò Ièn, era spenta. Non avevano, o non ricevevano, abbastanza corrente per mantenerlo acceso.
    A vederli, quella che doveva essere sua moglie giunse le mani in segno di preghiera. Quasi si avventò su Hahàva, stringendole le braccia. «Gvardya, Gvardya!»
    «Uhm, grazie signora, ma se non mi lascia...»
    «Mia moglie, Tanua!»
    Ièn si mosse per guardare l’uomo faccia a faccia. «Sì, signore. Ci serve aggirare la Ljud’ Domusve. Il resto viene dopo, d’accordo?»
    Come punto dalle sue parole, il civile annuì. Li guidò ad una porta a vetri e la sbloccò, facendosi da parte per lasciarli passare. I loro passi li portarono ad un cortile, attraversato da fili del bucato. Sgusciarono sotto ai panni, scartando a sinistra e arrivando a ridosso d’una staccionata. Markhairena la scavalcò d’impeto, catapultandosi nel cortile a fianco.
    Con Hahàva a chiudere la fila, Ièn lo seguì.
    Trovarono riparo dietro un’ara per barbecue, inginocchiandosi sul prato grigio-verde. Aprirono i serbatoi dei lanciagranate montati sotto le canne dei loro las-fucili, inserendoci dentro delle bombe a frammentazione e un’abbagliante. Si staccarono, aggirando l’ara per allungare all’altro filo della staccionata. Di nuovo, Markhairena aprì la strada scavalcandola.
    Sull’uscio interno c’era un civile, una donna in pantofole. Gli fece segno di tacere e poi allungò l’indice al profilo della Casa del Popolo.
    «Ci sono aurelici, laggiù.»
    Aveva un buon Gotico Basso.
    «Possono vedere fin qui?»
    Lei incassò la testa nelle spalle: «Non lo so. Scusate...»
    La scavalcarono, continuando il loro incrociare in diagonale attraverso i cortili. Si ritrovarono presto in un giardino più largo degli altri, dotato d’una piscina ormai asciutta. C’era solo un dito d’acqua sul fondo, ingiallita e fetida.
    I tre affiancarono la siepe di fondo, tagliando subito sull’interno per tornare dietro la poca copertura offerta dai fili del bucato. Molti dei panni stesi, in quel cortile e nel prossimo, erano teli e coperte. Non avrebbero fermato un colpo, neanche da lontano, ma li potevano coprire agli occhi del nemico. Qualcosa era, pur sempre, meglio di niente.
    Tallonò il sergente Markhairena, incrociando per due consecutivi giardini. Al terzo si divise con Hahàva sulle ali, posizionandosi dietro ad un melo intirizzito dalla bassa stagione. I frutti non erano ancora maturi, ma alcuni erano già stati colti.
    Non era difficile cogliere il perché.
    Scandendo una fitta serie di comandi gestuali, Markhairena gli ordinò di avanzare a ridosso della staccionata e guardare al di là.
    Aveva scorto qualcosa, ma prima d’intervenire voleva una conferma. Ièn raggiunse il sito indicato in pochi passi, procedendo il più radente al suolo possibile. Questa volta c’era un cancelletto, in legno e con infissi di ferro battuto, che apriva sul giardino vicino. Si accostò ad esso, avanzando carponi fino alla serratura.
    Non era stata chiusa a chiave. Si sporse per guardare al di là, imbracciando l’Accatran: il giardino difronte a lui, attraversato da una mezza dozzina di fili del bucato, sfociava sul patio di una casetta a schiera non dissimile da tutte le altre.
    La porta sul retro, tuttavia, era aperta.
    «Te lo dico io!», disse la voce di una ragazza. Era affettata, e non aveva l’accento dei locali. Anzi, il timbro era quello aurelico. «I severan ci hanno abbandonato qui»
    «Puttanate! Non lo farebbero mai.»
    Ièn segnò al sergente due presenze all’interno. Chiuse la sinistra, battendola una sola volta sull’erba del giardino a stampo alto terrano.
    Ostili.
    Erano due donne.
    «Ah, sì? E perché ci hanno detto di aspettare qui, allora?»
    «Siamo una retroguardia, rincoglionita. Ci diranno quando arretrare. E comunque, non abbiamo carburante per il Chimera.»
    Ièn chiuse gli occhi, strizzandoli dietro al visore. I maledetti avevano un Chimera. Faccia a faccia, se avesse avuto abbastanza carburante da uscire allo scoperto, avrebbe potuto tritare il loro modesto Hypaspista. In corazzatura non erano particolarmente diversi, ma se era un Kronus-Pattern…
    «Maledetti bastardi!», urlò la seconda donna. La sua voce, sempre aurelica, aveva un tono più alto. Forse veniva dall’interno del Sector Korianìs. «Stupidi, non avete neanche una bottiglia di carburante, qui?! Svuotate la vostra macchina!»
    Ièn controllò lo stato della sicura. Si ricordò di averla reinserita quando erano entrati, e così la disinnescò spingendo in basso la levetta di blocco alle lenti di focalizzazione. Markhairena e Hahàva sgusciarono al suo fianco, sistemandosi presso l’altro capo del cancelletto.
    Dall’abitazione provenne un rumore di stoviglie frantumate. Markhairena annuì e spinse in avanti lo sportello, calando un passo all’interno del giardino; seguendolo, Ièn accennò ad un tavolo da pranzo sistemato all’aperto, sotto un grosso ombrellone. Ci sgusciò accanto, appoggiando l’Accatran al piano. Le finestre acccanto alla porta sul retro non gli offrivano alcuna soluzione di tiro. Scosse la testa per segnalare quel dettaglio e tornò, carponi, ad avanzare.
    Risalì fino al lato destro della porta, affiancandolo con la spalla. Hahàva si portò subito dietro di lui, tolse la sicura al suo Merovech-Pattern d’assalto e scandì tre secondi con dei battiti del piede. Avanzando lungo il dato destro, il sergente Markhairena strappò un’abbagliante dalla propria cintura e la palleggiò contro il palmo della mano. Indice e medio erano già stretti alla cintura di sblocco.
    Schiantò il suo piede contro l’uscio, che rinculò all’interno. La forza con cui lo colpì la sganciò dai cardini e sbatté con forza contro la parete. Strappò la cintura alla granata abbagliante e la buttò all’interno, ritraendosi prima che una mezza salva di fucileria potesse inchiodarlo a terra. Ièn distolse lo sguardo, puntandolo ai propri piedi.
    Il lampo baluginò, rovesciando all’interno della cucina una bolla di luce bianca e un’onda sonora assordante e cieca. Sgusciò dentro un secondo dopo, mentre la visiera del suo elmetto si polarizzava per difendergli gli occhi dall’abbaglio.
    Il suo puntatore dardeggiò all’aurelica più vicina e tirò il grilletto; tre baluginii rossi esplosero dal suo Accatran, tutti in rapidissima, semi-automatica successione. Mosse l’arma dal basso verso l’alto mentre sparava, centrando il bersaglio al tronco, al collo e alla fronte. L’aurelica stramazzò a terra a corpo morto, sbattendo contro il piano cottura e rovesciandosi sul pavimento. La sua compagna, accecata, aprì il fuoco a kantrael spianato, esplodendo una raffica disorientata e feroce. Super-sonici schiocchi di frusta echeggiarono tra le pareti, seguiti a breve distanza da violenti scoppi di scintille.
    Hahàva si tuffò in avanti. Il suo gomito raggiunse l’aurelica sul mento e, carica del proprio impeto, picchiò a terra con lei. S’impuntò piazzandole un calcio sulla gola e spinse in basso, strappando alla nemica un gorgoglio disgustoso e confuso.
    Affiancando la compagna, Aurelios esplose un singolo colpo; l’aurelica smise subito di rantolare e sbracciarsi, fermandosi riversa sul pavimento.
    «Azzerati», riportò sulle onde corte, schioccando un pugno in alto per comandare lo stop all’operazione. Ièn batté la stanza, a caccia d’altri ostili. Rannicchiati contro un caminetto vuoto, tre locali tremavano. Dai loro occhi, colpiti dall’abbagliante, colavano lacrime.
    Hahàva si risolse in piedi, fece un passo indietro e poi sferrò un calcio al viso della guardia aurelica morta ai suoi piedi. Tornò presto a imbracciare il Merovech, abbassandolo perché non fosse a portata dei civili. Il salotto era pieno di stoviglie e bottiglie rotte.
    «Ièn?»
    Annuì. Sapeva cosa doveva fare. Si accostò ai tre civili, parando una mano all’altezza della propria spalla per dargli idea che non fossero ostili. «Sssshit. Calmi.»
     
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    Il canale ad onde corte crepitò, di nuovo vivo e attivo. «Vang-Primvs A, qui Vang-Primvs B. Statvs
    Quella era la voce di Tiber.
    In sottofondo alle sue parole, però, c’erano degli spari d’arma laser. Là fuori i loro commilitoni si stavano mettendo all’opera, avanzando sulla Ljud’ Domusve, oppure gli aurelici erano riusciti ad individuarli prima e avevano aperto il fuoco per sbarrargli la strada.
    In tutta onestà, aveva pensato ai severan, ma se le parole delle due aureliche erano vere, se n’erano andati lasciando le zecche di Meridian a morire al loro posto.
    Il sergente Markhairena, già chino sulla prima militare che avevano abbattuto, staccò la mano dalla scocca di tiro. La polarizzazione del suo elmetto si ritrasse, lasciando in chiaro la sua faccia. Sollevò la visiera con l’indice della sinistra, quindi occhieggiò alla propria sinistra.
    Ièn ispezionò i due cadaveri a distanza. Erano decisamente morti, ma il Colonnello aveva ripetuto mille e poi altre mille volte che un controllo in più salvava vite.
    «Vang-Primvs B, situazione ordinaria. Sotto controllo.» Il sergente strappò la metà asportabile della piastrina dell’aurelica e se la infilò in tasca.
    Numeri nelle mani dei giganti. La Crociata del grande Lord Solar li aveva dirottati lì per contrastare l’invasione e recuperare all’Imperivm quelle stelle, ma perché o come erano discorsi al di là della sua comprensione. O di quella che potevano aver avuto le due morte.
    Alla fine, loro erano solo numeri nelle mani dei giganti.
    «Due ostili azzerati
    Per l’Imperatore-Dio sulla Sacra Super Terra, però; il sergente aveva delle occhiaie proprio nere. Aggrottò la fronte, forse lottando contro un guizzo di sonno; stappò un taschino, dal quale tirò fuori una pillola energetica kepopho. La ingollò senza neanche un sorso d’acqua, sull’unghia, rilassando le spalle quando la scarica d’energia gli attraversò i muscoli.
    «Sarj?», esordì Ièn. Lui gli rispose con un pollice alzato, poi si riscosse in piedi.
    Andava tutto bene.
    «Erano aurelikas. Fantaccini. La vostra situazione, invece?»
    Attraverso la statica, lo staccato metallico della brandeggiabile si fece sentire. Jason aveva esploso una raffica e i timbri del martelletto d’innesco, fortissimi anche attraverso i muri e la porta della casupola, si sdoppiavano attraverso il canale Vox.
    «Stiamo muovendo all’assalto della Casa!» Una sequenza di crudi improperi salì dal sottofondo della trasmissione, interrompendo il suo comunicato. Era Zhì, quella? «Fianco destro sicuro?»
    «Statvs corrente ignoto. Indaghiamo.»
    La raffica s’interruppe, riprendendo solo alcuni secondi dopo. Colto cosa volesse il sergente da lui con quelle parole, Ièn si girò per fronteggiare i civili. Nel farlo, riportò l’Accatran-Pattern in posa di guardia, pronto all’uso ma lontano dal metterli sotto tiro.
    Una era un’anziana. Le altre due erano donne più giovani, forse sui trenta. Queste ultime erano strette attorno alla prima, che si dondolava avanti e indietro, reggendosi la testa tra le mani. Era in stato di shock, ma darle un sedativo non sarebbe stata la migliore idea.
    Le questioni mediche era meglio lasciarle a chi ne sapeva di più, fermo restando che con la sua età, avrebbe potuto ucciderla. La roba che avevano loro non era da banco o da para-farmacia.
    Appoggiò la mano disarmata alla Bicefala Aquila Imperiale impressa sulla sua armatura. Indicò lo stemma con l’indice, tamburellando perché lo notassero e vedessero. I separatisti del Sogno usavano un falco, il Severan usava una singola Aquila e gli aurelici avevano i giavellotti di Meridian come loro simbolo. Tra tutti quegli stemmi, l’Aquila di Terra e Marte era la grande anziana.
    Dodici millenni, e ancora volava. «V’Haronikoiu?»
    «Nyu, rokyy», gli rispose una delle due donne. Si alzò, lasciando l’anziana alle cure della sua compagna. Era bassina, con un paio di piccoli occhiali da lettura montati sul naso aquilino. «Plasze Hervariuku
    Oh, quello poteva complicare le cose. «I Hotiku?»
    «Eh, un po’...» Aveva molto accento locale, ma riusciva comunque a capirla. «Siete la Gvardya, tja?»
    Hahàva lo scavalcò, offrendo ai civili un cenno della testa. «Tjak
    «Permetti?»
    «Sì, sì. Volevo dirlo io, una volta tanto...»
    Allungò la mano verso la compagna di squadra e gesticolò mezzo secondo, quasi a voler dire alla sua interlocutrice che era fatta così. Farci troppo caso non serviva a niente. «Sì, siamo soldati della Guardia Imperiale. Il vostro esercito.»
    Tecnicamente erano di Sector diverso, dominato da un feudo forse ben differente da quello che sedeva su Garon-in-Frangia, ma quelli non erano che dettagli. Come Guardia Imperiale, erano l’esercito di tutto l’Imperivm.
    Un’armata di armate.
    L’anziana fermò il suo dondolio e salmodiò pietosa qualcosa in hervariko. Lottando contro i postumi del sonno e della stanchezza, Ièn provò a decifrare le sue parole. Non gli sovvenne niente e così la guardò come un pesce lesso, inclinando il capo.
    La donna senza occhiali tartagliò quasi offesa: «Vi ha mandato l’Imperatore.»
    Tecnicamente parlando, gli ordini del Lord Solar. Ma se questo la faceva sentire meglio, perché no? «Sì, signora. Ci ha mandato Lui. Abbiamo bisogno della vostra cooperazione, mi capisce? Seguite le indicazioni che vi diamo.»
    Dalla strada rotolò fino a loro il tuonare della mitragliatrice brandeggiabile di Jason. Inframezzati tra i suoi calibri blindati c’erano degli schiocchi d’arma laser. «Non vogliamo derubarvi, né farvi del male. Ci serve sapere, però, se ci sono altri aurelici, o severii, nei paraggi.»
    «Parr...»
    «Vicinanze.» Forse anche quella era una parola un po’ troppo difficile. Com’era in Haroniko, però? «Tut, tjak? Ni, uhm… zdezìt
    «Zdeshet
    «Da!» Si bloccò, volenteroso di mordersi la lingua. Quello era giusto in Vostroya e in Haronikyy Primaris, non in Haroniko medio. «Tak, tak! Sì, certo… tjak
    Hahàva si schiarì la gola con un colpo di tosse. «Libri, va tutto bene?»
    «No, cazzo. Mi sto incasinando.»
    «I bambini sono al sicuro?», intervenne Markhairena. Le tre donne lo guardarono di colpo e lui rispose facendo spallucce. «Sulla dispensa c’è del latte e ci sono due scatole di Pritiami
    Hahàva si sporse sulla cucina. «Chyz, davvero? Che occhio, sarj
    Come d’istinto, Ièn si girò a sua volta. Effettivamente, Markhairena aveva ragione: in cima ad una madia affissa alla parete c’erano due bottiglie di latte, nascoste dietro un cesto di vimini. Più in disparte, dentro uno scatolo di cartone, c’erano due confezioni di chicchi tostati.
    La donna con gli occhiali assentì. «In cantina, sì...»
    «Raggiungeteli e restare di sotto finché non vi diamo il Via Libera, è chiaro?» Riprese Aurelios, massaggiandosi la fronte. «Ièn, diglielo anche nella loro lingua.»
    Era più facile a dirsi che a farsi. Osservò l’ordine del sergente al meglio, sperando che la donna con gli occhiali conoscesse abbastanza Haroniko da riuscire a capirlo. Aiutando l’altra a sollevare l’anziana, però, lei si spostò verso una piccola porta di legno.
    Doveva dare sul piano inferiore, quindi aveva capito.
    «C’erano solo loro», disse guardando di sottecchi alle due aureliche morte. «Volevano la nostra… carburante? Promthia?»
    «Promethium. Benzina, cercavano benzina.»
    «Sì.»
    Quindi il loro Chimera è davvero bloccato. Ottimo a sapersi. «Sono tutti alla Ljud’ domusva?»
    Prima di rispondergli, aprì la porta e aiutò l’altra donna a far passare l’anziana. I loro lineamenti avevano un che di comune; era probabile che fossero sorelle, e quella fosse la loro madre. Oppure una zia ormai vecchia che avevano preso in casa.
    «C’erano anche severii, prima. Ora sono via.»
    «Ah!», gracchiò Hahàva, ridacchiando sottovoce. «Se ne sono andati lasciando i ratti a morire qui. Avrei fatto lo stesso.»
    Be’, chi non l’avrebbe fatto?
    Dalla porta aperta fecero capolino due ragazzini, non più giovani d’otto o nove anni, con i capelli scompigliati e qualche foro tra i denti. I cinque civili confabularono tra di loro per un secondo, poi si mossero tutti oltre la porta.
    «Pochi uomini da queste parti...», osservò Hahàva. Era pensierosa. «Sono tutte donne, anziani e bambini.»
    In effetti, d’uomini in età d’armi non ne avevano visto manco mezzo da quando avevano lasciato la periferia di Chernobasa alle loro spalle.
    La fine che potevano aver fatto era auto-esplicativa. I severii potevano averli coscritti per le miniere, le loro milizie o averli uccisi a sangue freddo per domare la popolazione.
    Non sarebbe stata la prima volta.
    Sgomberati i civili, Hahàva prese una delle due scatole di chicchi tostati e la scosse ripetutamente, sempre su e giù. Il fruscio che s’espanse era di cartone semplice e fragrante preparato. Ièn abbassò la testa, scosso dalle sue stesse risate.
    «Dici che...» Sotto lo sguardo di Markhairena, Hahàva infilò la mano nel cartone, scavando con pedissequa insistenza «dentro c’è ancora la sorpresa?»
    «E che cazzo te ne fai?»
    Lei fece spallucce, ingollando un pugno di chicchi. Li masticò per alcuni secondi, scrocchiandoli apposta tra i denti. Dovevano essere davvero molto, molto croccanti. Così come aveva cominciato, così la piantò riponendo la scatola al suo posto, sopra alla dispensa. Risistemò il proprio elmetto, quindi occhieggiò la cucina in cerca di lei solo sapeva che cosa.
    O perché.
    «Niente, chiedevo.»
    «Vuoi fotterti la sorpresina dei cereali per bambini?»
    La compagna di squadra squadrò il sergente: «Oy, magari le colleziono! Che ne sai?»
    «Ma… perché?» le domandò Ièn. A quale fine? Non valevano più di venti centesimi di Trono l’una, ed erano giocattolini di plastica colorata! «E poi non siamo qui per rubare ai civili.»
    «Non gliela rubo, Libri. Era solo per vedere.»
    Il Vox gracidò: «Vang-Primvs A, qui Vang-Primvs B. Ricevete?»
    Il sergente non esitò a rispondere: «Positivo, Vang-Primvs B
    In sottofondo allo scambio sulle onde-corte c’erano ancora, forti ma non fittissimi, degli spari. Ci tese l’orecchio, distinguendo gli scoppi supersonici delle armi laser dal tuono, più ferroso e pesante, dei calibri cinetici. Tuttavia, erano passati pochi secondi dalla fine della loro comunicazione di prima. Perché si rifacevano sentire?
    «Abbiamo appena rilevato contatti alleati in arrivo», annunciò Tiber. Ièn sentì una scarica di adrenalina attraversagli i muscoli, irrigidendolo dalla nuca alla schiena. Amici sul campo, era anche l’ora! Finalmente la situazione si stava scaldando.
    «Il sergente Quarta vi chiede di coprire il loro arrivo, plvs
    Markhairena non esitò nemmeno un secondo: «Direttiva di provenienza?»
    Non gli venne detto niente e la comunicazione cadde nel vuoto. Ritornò in vita venti secondi dopo, in seguito ad un singolare crepitio di statica. Il sergente Markhairena accennò alla porta di casa con la testa, quindi riformulò la sua domanda.
    La replica dell’operatore-vox giunse alcuni attimi dopo. Venivano dalla Provincialii Via M.49, la stessa strada che avevano percorso loro. Sarebbero transitati dalla discesa, occupando quella che ora era diventata la posizione di retroguardia dello Hypaspista.
    «Plvs-plvs. Hai dettagli sulle loro identità?»
    «Sì!»
    Ma il canale s’interruppe di nuovo.
    Ièn scattò all’uscio e l’aprì piano, mettendo un piede sul pianerottolo d’ingresso. Un nastro verticale di scoppi laser esplose contro il bordo della porta, sprizzando schegge di legno infuocato a velocità super-sonica. Si riparò dal loro esplodere, alzando il braccio sinistro per pararsi il viso.
    Un fiotto gli sbatté comunque contro la placca toracica. Si ritrasse all’interno dell’abitazione, scosso ma più sveglio di quanto fosse stato un momento prima. Il primo controllo che fece sul proprio corpo gli disse che non aveva fori d’entrata e uscita.

    «Ci hanno visto», sibilò a denti stretti. Due schegge gli avevano graffiato il braccio sinistro, lacerando la mimetica da fatica. Erano passate appena sopra al bracciale in syntho-plastacciaio, mancando le vene arteriose di qualche centimetro.
    S’inginocchiò, mise da parte il las-fucile e controllò le ferite che gli avevano provocato.
    Sospirò sollevato quando trovò che erano solo due tagli superficiali. Recuperò l’arma, bestemmiando contro il bruciore che gli pervadeva il braccio. Fece cenno ai due commilitoni di aspettare tre secondi, poi si defilò sul lato interno dell’uscio, tenendo la porta alla propria destra.
    Non arrivarono spari.
    Hanno visto una porta aprirsi e hanno scaricato fuoco di risposta. Una reazione normale, anche se da fantaccini. Non sanno che siamo qui dentro o in quanti siamo.
    Ma uscire allo scoperto gli avrebbe confermato che era un punto da tenere inchiodato. Ièn si girò in cerca del sergente, trovandolo al proprio fianco.
    «Come li copriamo se non possiamo uscire?»
    Markhairena controllò che il suo lanciagranate fosse carico. All’interno c’era ancora l’ordigno a frammentazione che aveva inserito prima. Lo fece slittare fuori con un colpetto del palmo, riponendolo subito in una giberna.
    «Usiamo i fumogeni per muoverci» Spinse nel tubo lanciatore una diversa granata e chiuse lo slot con uno schiaffo sonoro. Dietro ai due, Hahàva stava a sua volta cambiando granate; dopo aver scambiato la frammentazione con la fumogena, ne tirò fuori una dall’equipaggiamento dell’aurelica che avevano azzerato con un colpo alla testa.
    «Oy, ‘ste due stronze ne hanno altre con loro.»
    «Di che pattern?»
    Analizzandone una in controluce, Hahàva assentì tra sé e sé. «Meridian-Secvndo Pattern. Fumogena, se t’interessa.»
    «Il composto sarà lo stesso.»
    Aurelios allungò la mano e Hahàva gli lanciò la granata, che lui prese al volo. Strappò la linguetta di sicurezza e la fece rotolare fuori dall’uscio, ritraendosi per non inalare il composto. L’ordigno scoppiò presso un tombino e il fumo invase la strada, sibilando in tutte le direzioni. Una sequela di spari laser ci piombò dentro, scoppiando sull’asfalto come tante gocce di pioggia.
    «Fantaccini...», mormorò Hahàva, allungando loro un’altra fumogena. Ièn la prese, l’innescò con una spintarella del pollice e poi trasse indietro il braccio. La scagliò con forza al di là delle due carreggiate, facendole fare un numero di giri su sé stessa mentre cadeva a parabolica sul marciapiede. Scoppiò un momento dopo, sprizzando una nube bianco-grigiastra attorno a sé.
    «Vang-Primvs B, mi ricevete?»
    Nessuna risposta.
    Il rumore di cingoli in movimento, tuttavia, c’era ancora. Non c’erano stati boati improvvisi, né scoppi a bordo strada; quindi, il loro Hypaspista era ancora attivo. Tiber poteva essere stato colpito, oppure un bolt aveva centrato la sua attrezzatura.
    Ad un cenno di Markhairena, Ièn scivolò oltre l’uscio e prese a tagliare in laterale. Si ritirò dalla prima coltre di fumo, dardeggiando subito all’interno della seconda. I colpi dalla Ljud’ Domusva continuavano a cadere, confusi e a casaccio. Non avevano equipaggiamento per la visuale termica o notturna, il che avvalorava la tesi del loro essere un mucchio di soldatini lasciati a rallentarli.
    Sgusciò alle spalle d’un cassonetto per la raccolta del vetro e s’inginocchiò. Per prima cosa segnalò ai compagni che la via era sicura, poi s’impuntò a tenere sotto tiro il fumo e ciò che stava al di là. Attraverso un varco nelle cortine, vide che lo Hypaspista si trovava più avanti.
    Non era danneggiato, grazie all’Imperatore-Dio. Anzi, aveva avanzato di buon sprone, incrociando per la subordinata asfaltata una casa dopo l’altra. Ora stava ad almeno quaranta metri da loro, rivolto alla casa e con il resto della squadra al riparo dietro alla sua poppa.
    Alle spalle dello scudo balistico della mitragliatrice, Jason era chino e rabbioso, con le mani incollate ai doppi grilletti. Sparava raffiche intermittenti, corte scariche che esplodevano schizzi d’intonaco e polverizzati frammenti di cartongesso dove colpivano la Casa del Popolo.
    Ièn s’accigliò. L’antenna dell’unità vox di Tiber era stata tranciata.
    «Ecco perché non rispondevano...» mormorò a sé stesso. Un colpo accidentale doveva averla presa in pieno, tagliandola di netto dal processore centrale.
    Dalla discesa, sgranando ferroso sull’asfalto bagnato, proveniva un secondo, massiccio tremore d’acciaio. Ièn abbassò l’Accatran, sottraendo il grilletto al suo indice. Il nuovo arrivato s’incagliò contro il dosso di controllo, sprizzando una serpentina di fumo nero dai propri tubi di scappamento posteriore; un massiccio lamento d’acciaio riempì l’aria, scavalcando a grandi falcate anche la fucileria in corso.
    Scalpicciando, Markhairena e Hahàva raggiunsero Ièn presso il cassonetto, prendendo posizione al centro e sull’ala interna.
    «Tiber si è fatto fottere il Vox», gli riassunse.
    «Cos’è, è inciampato di nuovo in un albero?», ridacchiò Markhairena.
    «Eh...»
    Il tremore s’accigliò, facendo seguire ad un momento di silenzio un rialzo dei giri del motore. Il rullio della torretta si fermò con un timbro metallico e la prua del carrarmato scavalcò con agilità il dosso, portando lo scafo al di là.
    Era un Gladian MBT Carn-V Pattern, dal taglio basso e squadrato. Le placche di corazza reattiva lo facevano sembrare goffo e bitorzoluto, come una bestia punta da troppi insetti feroci, ma ora affrontava la discesa con agilità.
    E la torretta a cuspide era già rivolta verso la Casa del Popolo. In poppa batteva una sventolante bandiera dell’Imperivm, con l’Aquila Bicefala campale in centro, e una seconda insegna con lo stemma del Mondo e del Sector-Fortezza di Gladius.
    Markhairena alzò un pugno chiuso all’indirizzo del carrarmato, che completò la sua manovra con uno sbuffo di carburante esausto. Con la prua rivolta alla casa, infatti, riprese la propria avanzata; il suo stridere riempì la via, facendo da sottofondo al ballare delle sue placche blindate.
    La botola della cupola si sollevò con un cigolio.
    «Ehi, Elysia!» gridò una voce femminile, fatta roca da anni di fumi esausti. «Serve una mano?»
    Ièn abbassò lo sguardo, lieto che l’elmetto e il passamontagna gli stessero nascondendo il viso. Non aveva voglia di spiegare perché stava sorridendo.
    Sulla fiancata del loro carrarmato, con quanto più sprezzo della grammatica e dell’ordine dei casi propri del Haroniko, i gladiani avevano scribacchiato una frase. Mye druh! Nje bastrelja!
    Era così profondamente gladiano che non poteva che ridere.
    «Sì, grazie! Per caso hai portato degli amici?»
    «Un gruppo di terrucolis
    Dovevano essere quelli del 67esimo.
    «Russ nudo tra le puttane», bofonchiò Hahàva. «Dobbiamo anche fare da imane ai terrestri?»


    Kepopho: stim energetici in pillole. Non sono un'alternativa a mangiare e riposarsi, ma annullano i sintomi della stanchezza e della fame per diverse ore. Può darsi ci sia dell'eroina, rifinita in chissà quali modi, nel loro composto.

    Sarj: un altro rimasuglio sopravvissuto nella khoinè elysiana. Potrebbe derivare da sarge, o da sargeant. Lo pronunciano sar'jh.

    Imane: Hahàva viene da una regione molto tradizionalista e religiosa di Elysia, la Vallata dei Templi. Questo la porta ad usare alcuni dialettalismi che gli altri non usano, vuoi perché sono caduti nel dimenticatoio o perché hanno un tono da pescivendola al mercato. In questo caso, ha usato un antico vocabolo, sopravvissuto nell'Elysia attraverso i bed' di Jerushem, per dire mamma. La parola corretta sarebbe iman', mentre imane ha un tono più denigratorio. In pratica, ha chiesto se devono fare da mammine ai terrestri.


    Edited by dany the writer - 28/3/2024, 10:58
     
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    Capitolo I-G
    Aurelios Markhairena




    +++Segmentvm Obscvrvs
    Hera-Amiir Sector

    Espansione di Zaqqurava
    Sistema Stellare di Hervara

    Hervara IV-B, Mondo-Civilizzato
    Continente di Invyyere

    Portal Danòrra, 201 chilometri SO da Negemyn
    M42.Y022+++



    Il Gladian MBT inchiodò presso il raccoglitore dell’immondizia e sulla strada rotolò un pesante, trascinato tramestio metallico. I suoi tubi di scappamento sputacchiarono due, tre e poi quattro zaffate di carburante bruciato.
    La torretta si smosse, ruotando verso destra. Aurelios ne approfittò, segnalando con la mano ai suoi due compagni di squadra di seguirlo; si ripararono alle spalle del corazzato, falciando la strada antistante e posteriore con brevi, serrate arcate di tiro.
    Segnò a Ièn di dargli il cambio e prese il controllo dell’ala destra, appoggiando una mano alla gonna zigrinata. Un barlume rosso, appena in tempo filtrato dal visore, gli abbagliò davanti. Il suo sibilo supersonico arrivò un paio di secondi dopo, mentre il dardo esplodeva a contatto con l’asfalto.
    «Giù!»
    I colpi aurelici arrivarono a gradinata, precipitando dall’alto sopra alle loro teste. Ciuffi di strada polverizzata s’alzarono attorno a loro, insistendo per alcuni attimi. Schiocchi più ferrosi, dati dall’impatto contro lo scafo del Gladian, ruzzolarono da lato a lato della via.
    Si ritirò ancora di più alle spalle del carrarmato, imprecando sottovoce. Hahàva si scoprì per un momento, scoppiando una corta raffica all’indirizzo della Casa del Popolo. L’alta frequenza del Merovech sfrigolò a mezz’aria, riempiendo la strada di brevi e rabbiosi schiocchi di frusta. La risposta le fioccò tutt’attorno, insistendo a picchiare l’asfalto. Una stringa di spari risalì in lungo il Gladian, sprigionando vampate di calore e nulla più.
    Un’altra ventina di colpi volò fin troppo alta, forando in più punti una staccionata che delimitava il confine d’una delle villette a schiera stanti alla loro sinistra.
    Hahàva rispose al fuoco. Scoppi di polvere e frammenti caddero giù dalla facciata e il fuoco di risposta cominciò a fioccarle vicino, spingendola al riparo. Alzò il fucile oltre il profilo della poppa e tirò il grilletto, esalando un’altra fitta scarica.
    «Conserva le munizioni!», gli urlò Ièn. Il loro tiratore si era inginocchiato. Aveva tolto le lenti protettive dal mirino e rimosso la sicura. Si portò per un quarto allo scoperto, senza alzarsi in piedi, per esplodere un paio di colpi. Un frantumo di finestre insorse dalla Casa e un aurelico precipitò giù, sbattendo a corpo morto sul colonnato d’ingresso.
    Ièn tornò al riparo.
    Quando la compagna di squadra cessò il fuoco, Aurelios avanzò di mezza falcata fuori dalla copertura del Gladian, alzando l’Accatran contro la spalla.
    Il terzo piano era abbastanza sopraelevato da consentire quei tiri, senza mettere eventuali fucilieri troppo allo scoperto in posizioni vulnerabili come il quarto o il quinto piano. Inquadrò una delle finestre e strattonò il grilletto. Un terzetto di spari scoppiò fuori dalla canna del suo las-fucile, esplodendo in rapidissima successione contro il cornicione e il vetro.
    Tirò altre due brevi raffiche, mirando ad altrettante finestre, prima di arretrare a sua volta al sicuro, dietro al carrarmato. Il fuoco aurelico si stava affievolendo. Forse stavano ricaricando, oppure si erano decisi a smetterla per il momento. Senza celle energetiche Hotshot, o colpi super-caricati, una manica di las-fucili non poteva fare molto contro un mezzo corazzato.
    La conduttrice del mezzo gladiano si girò a seguirli con lo sguardo, stringendo a sé lo scudo balistico della sua Draken brandeggiabile. Due fucilate ci esplosero contro, sprizzando vampate di scintille e minuscoli frammenti d’acciaio.
    Va bene, sono degli idioti in preda al panico.
    «Com’è che non rispondete sul Vox?» Disinnescò la sicura tirando indietro la leva di blocco e sblocco, poi rilasciò una scarica di risposta sull’edificio. Una dozzina di bossoli ruzzolò sull’asfalto, tintinnando man mano più lontani.
    «Quello del nostro operatore?», s’inserì Ièn, alzando la voce per farsi sentire sopra al continuo, scoppiettante borbottio del motore e gli spari. «I potsarazi gliel’hanno danneggiato, siamo alle onde corte!»
    Il canale a breve gittata crepitò. «Test audio, test audio.»
    Era stato un uomo a dire quelle parole. Il suo Gotico Basso aveva lo schivo accento di Gladius, ma salvo quell’elemento, era molto grigio e comprensibile. «Test audio, ripeto. Qui parla Prelator-Fiftvs. Alleati, ricevete?»
    Salendo dal basso, una fucileria impattò sullo scafo del carrarmato gladiano. I dardi laser esplosero uno in fila all’altro, proiettando brillanti scintille. Aurelios si chinò sulle ginocchia e sgomitò dietro la prua, ordinando ai suoi due sottoposti di mettersi al riparo.
    Si sporse da dietro l’angolo e, di nuovo, tirò il grilletto all’indirizzo delle finestre. Attraverso il puntatore vide scoppi di vetro, già ridotti in frantumi dalle scariche precedenti, e scheggiate briciole di calcinacci. Una sagoma gli passò davanti e subito Aurelios spinse indietro il grilletto, rilasciando un nuovo sparo. Gli sfuggì, scorrendo a lato veloce e china.
    Dallo Hypaspista s’alzò una fitta raffica di pesanti calibri transuranici; l’angolatura della Casa del Popolo esplose in mille sbuffi diversi, tutti sparpagliati all’inseguimento degli scatti meccanici dell’arma. Jason zigzagava, portando il suo tiro da una finestra all’altra.
    Con un pesante cigolio, il portellone del Gladian si aprì.
    Aurelios l’accennò ad Hahàva con uno scatto del viso e la commilitona si spostò per non finire sbattuta per terra. Con lei pronta a coprirgli le spalle, e lasciando l’angolo di tiro che dava in modo diretto sulla strada a Ièn, Aurelios s’affacciò sull’interno del carrarmato.
    Le luci delle strumentazioni di bordo ridussero all’istante la polarizzazione del suo elmetto. Il vano centrale era attraversabile fino all’alcova di guida, ma il pavimento era colmo d’ogni sorta di ciarpame imbarcato dall’equipaggio. Casse di munizioni, viveri in scatola, acqua in bottiglie, batterie di ricambio, teli mimetici e kit di primo soccorso lo tappezzavano.
    Chino alla sua batteria di cogitator e pannelli, l’operatore Vox gli allungò una cornetta cablata. «Qui, ellys! Abbiamo una linea con il vostro macinino!»
    Egýt...
    «Cazzo, siete fantastici!» Abbassò la testa per non urtare qualcosa, infilando il piede tra un involucro di plastica con dodici bottiglie d’acqua e un paio di scatole di granate. Si rese conto che aveva sete e che quelle bottiglie erano molto appetitose, ma non si fermò: strinse la cornetta tra la spalla e l’elmetto, cercando al tempo stesso di non ingarbugliarsi con la tracolla dell’Accatran. «Qui Vang-Primvs A, da Prelator-Fiftvs. Vang-Primvs B, ricevete carro-carro?»
    La donna di prima s’affacciò giù dalla coffa: «Oh, spicci. Non restiamo fermi.»
    «Chiaro.»
    Lei grugnì qualcosa piegando la testa e fece per tornare in cima, ma si ricredette. Corrucciò la fronte, come combattuta, e poi si sporse, stendendo il braccio a pugno chiuso. Colto il segnale, Aurelios si sbracciò in avanti e incontrò le sue nocche con le proprie. «Gloryh, paras. C’eravamo anche noi a Chernobasa con voi, OK?»
    Aurelios annuì. Aveva ragione, ora che ci faceva caso.
    Nessuna unità aviolanciata durava tanto senza il supporto pesante. Senza i Gladiani, non avrebbero potuto aprire una strada per arrivare fin lì. «Vang-Primvs A, da Prelator-Fiftvs. Vang-Primvs B, ricevete lungo linea carro-carro?»
    La voce di Yethan, l’operatore vox interno all’equipaggio dello Hypaspista, attraversò gli scatti della fucileria e crepitò fin alle sue orecchie: «Vang-Primvs A da Prelator-Fiftvs, qui Vang-Primvs B via Khypat-C. Riceviamo forte e chiaro. Ringraziate i compagni Gladiani da parte nostra!»
    Come un sol uomo, l’equipaggio del carro batté i propri pugni contro la scorza interna del loro mezzo, grugnendo con roco entusiasmo. «Uuh-ah!»
    Ma non è spathis, questa?
    Un segnale acustico di schermatura lo costrinse a spingere la cornetta lontana dall’elmetto. Aspettò che il fischio fosse passato, poi la riportò sulla spalla. «Tranquilli, sarà fatto. Statvs: non ricevete perché il Vox di Tiber è danneggiato.»
    «Tiber! Hemer!» sbraitò Jason dalla cupola, facendosi sentire forte e chiaro anche sopra agli scambi di spari tra la sua mitragliatrice e gli aurelici all’interno della Casa. «Dove cazzo hai la testa? Questi stronzi ci hanno assordato, te ne sei accorto?»
    «Oops...» disse lui, la sua voce lontana come un sussurro.
    «Passatemi Sirio.»
    In sottofondo ci fu uno scalpiccio, seguito dal rialzarsi della cornetta. «Oy, phrà. Avanti tutta.»
    «Abbiamo alleati in loco.» Avere un vero mezzo corazzato in campo cambiava le carte in tavola. «Facciamo andare avanti loro.»
    «Il Glad, vero?»
    «No, il Baneblade che ti sei messo nel culo. Sì, il Glad.»
    «Buono», rise lui in sottofondo ad una manciata di spari laser. Si schiarì la voce, tornando serio: «Allora noi prendiamo l’ala destra e risaliamo da lì. Com’è la situazione a livello civili?»
    Dopo aver scambiato un cenno con l’operatore vox del Gladian, Aurelios prese a tamburellare sulla tracolla del suo Accatran. «Alta densità di locali. Pochi uomini; i Severan non hanno sgomberato donne, anziani o bambini dal luogo.»
    «Yoh, mataphack stul m’coums...» disse il gladiano al Vox, ridacchiando sotto i baffi. «Brau, diamoci una mossa. Ci tirano addosso.»
    «Già.» Strinse la cornetta all’elmetto. «Vang-Primvs B, continuate su questo canale. Abbiamo unità alleate in arrivo allo scivolo dalla Provincialii. Ci muoviamo per collegarci. Prossimo aggiornamento in quindici minuti, plvs.»
    «Plvs-plvs. Viriamo sul fianco interno, c’è copertura tra gli edifici. Prelator-Fiftvs, hai la op-lead.»
    «Copiato, siamo op-lead.»
    In quel momento, il cannoniere del Gladian spuntò dal fondo del suo cubicolo. «Dai, paras! Facciamogli il culo!» Era sporco d’olio e grasso dalla testa fino alla cintola, ma c’era della grinta entusiasta nella sua voce.
    Aurelios riconsegnò la cornetta all’operatore.
    Occhieggiò di nuovo le bottiglie d’acqua, e l’operatore gli fece cenno di approfittare senza fare complimenti. Ne staccò due dalla confezione e sgusciò fuori dal mezzo tenendole sottobraccio. Le posò sull’asfalto, girandosi per aiutare i servo-sistemi del mezzo a riportare il portellone in posizione di blocco.
    Il corazzato sbuffò in avanti, sferragliando sull’asfalto. Riportandosi al fianco destro, che Ièn gli cedette per tornare all’ala sinistra, Aurelios tornò ad agganciarsi al mezzo in movimento.
    La botola in cima alla torretta si alzò.
    «Attenti, là dietro!» La conducente scandì le sue parole. «Copritevi i timpani, OK?»
    «Chiaro!» Le fece segno d’intesa con il pollice alzato e lei, subito, si rintanò all’interno del mezzo, tirando la botola dietro di sé.
    Dallo scafo ruzzolò a loro uno scatto d’acciaio e lo smuoversi di qualcosa. Stando al passo con il carrarmato, Aurelios abbassò la visiera del suo elmetto. Lo schermo ripristinò la polarizzazione, scurendosi in un batter d’occhio.
    Ièn e Libri fecero lo stesso.
    Sciorinando un lamento meccanico, il cannoncino di supporto regolò il proprio alzo d’una manciata di gradi, portandosi in linea di tiro con il fronte laterale della Casa del Popolo. Volevano sparare con quello, invece che con l’obice principale?
    Alzando il collo, Aurelios strizzò gli occhi; il cannoncino era un modello a catena automatica, più sottile dell’arma principale. Il suo calibro non poteva essere più di un quarantasette millimetri, ma vecchie tracce di bruciatura presso la via d’uscita dei bossoli gli davano l’idea che fosse un’arma a tiro elevato. La runa Mechanicvm d’avviso per il pericolo radioattivo era impressa sull’infossatura della canna, in tinta nera, sopra alla mimetica blu scura e grigia a macchie sparse.
    Il meccanismo di sparo s’innescò con un pesante, netto ruzzolo d’acciaio e ingranaggi. Le vibrazioni date dal rinculo gli sbatterono contro la spalla, strappandogli un’imprecazione di sorpresa dalle labbra. Scosso dai suoi spari, il cannoncino automatico s’illuminò; la prima scarica, sette tonfi uno subito dietro all’altro, fuoriuscì urlando uno schiocco di frusta.
    La loro volata non durò neanche un momento, incendiata a luie viva dai traccianti esplosi al terzo e sesto colpo: sulla facciata laterale della Casa esplosero dei crateri incavati e fumanti, con tutt’attorno ragnatele di pareti sgretolate.
    Le vibrazioni cessarono. L’eco dell’ultimo colpo si disperse, già debole abbastanza da venire scavalcata da grida e spari laser.
    Sprizzando fumi grigi, i bossoli esausti erano rotolati sull’asfalto. Avanzando alle spalle del carrarmato, Aurelios li occhieggiò prima di squadrare la cupola. La botola si risollevò con un cigolio e la conduttrice uscì, riparandosi dietro allo scudo della brandeggiabile.
    «Okay, fulks! I ratti terranno la testa giù per un po’! Andate a prendere i terrucolis
    Toccò lo spallaccio di Ièn con un colpo del pugno e il tiratore scelto lo sostituì, per una seconda volta, sull’angolo di tiro. Hahàva arretrò d’una falcata, spazzando l’ala sinistra con scatti precisi, corti e controllati del suo Merovech-Pattern d’assalto.
    La via era libera. Raccolse le bottiglie e, con lei al fianco, Aurelios tornò al cassonetto e da questo scattò di nuovo verso la fine della discesa. La risalì per alcuni passi, entrando di slancio dentro al camminamento blindato che era riservato ai pedoni. Insieme risalirono una rampa di gradini fino al cancelletto che aveva sfondato prima e lo attraversarono, incrociando per il corridoio ghierato. Dall’altra parte, sul pianerottolo che precedeva il pannello di controllo distrutto, c’erano tre soldatini terrestri.
    «Statvs, phràs», gli disse posando le bottiglie sul pavimento. Quella più esterna esplose in una bolla di vapore e fumi di plastica. L’acqua sfumò a contatto con il metallo, alzando strette dita di vapore grigio.
    I tre terrestri si precipitarono a terra, con le mani a coprirsi gli elmetti e gli occhi sbarrati. Ièn sospirò attraverso il respiratore del suo elmetto, mentre Hahàva balzò in ginocchio. Inforcò il suo las-fucile d’assalto contro lo spallaccio e si piegò in avanti, appoggiandone la canna alla ringhiera.
    «Ghyma ‘ha ryegha ‘hkzunnà!» sbraitò, esplodendo una fitta raffica di risposta. Due colpi di controbatteria sbatterono contro una delle colonne alla sua sinistra e tre spari scheggiarono la cresta dell’inattivo pannello di controllo, alzando colate di scintille e lapilli rossi.
    Imbracciata la propria arma, Aurelios si unì a lei nel fuoco di soppressione sulla casa. Pochi attimi dopo, il cannoncino del Gladian MBT tornò a farsi sentire e un rullio di tuoni investì l’edificio.
    La fucileria aurelica cessò di colpo.
    «Sono morti?», chiese uno dei tre terrestri. I suoi due commilitoni lo guardarono, spostando poi i loro occhi su Aurelios. Sì, erano proprio truppe di seconda linea.
    Che cosa ci facevano lì?
    «No.»
    Riportò l’arma in condizione di sicurezza, tendendo l’orecchio al ritmo dei colpi esplosi dall’auto-cannoncino. Un frammento di cornicione crollò a terra, frantumandosi in un’ondata di frammenti e un muro di polvere.
    Due sirene antifurto presero ad ululare. Sul canale ad onde corte si rincorsero le risate sia del loro Hypaspista che del Gladian.
    «Già, si saranno buttati al riparo», aggiunse Ièn. Diede al cambio ad Hahàva, che rapida indietreggiò sul versante interno del camminamento.
    Di sottecchi, lei squadrò i tre terrestri. «I fucili sono fatti per sparare.»
    Non dissero niente, rimanendo sdraiati a terra. Erano armati, e nemmeno con arnesi di bassa o infima qualità; i loro erano Kantrael Terra-Pattern, in formato corto. Di certo non erano i las’ più potenti e versatili di tutto l’Imperivm, ma erano buonissime armi.
    Il problema, lì, erano le mani a cui erano stati dati.
    La compagna di squadra sganciò la prima cella energetica dalla cassa del suo Merovech e la cacciò in una giberna. La sostituì con un’identica fresca, spingendola dalla culatta per assicurarsi che s’incastrasse per bene nell’arma.
    Ièn verificò la propria arma, poi alzò la testa. «C’è mancato poco, sarj.»
    Già...
    Staccandosi dalla ringhiera, Aurelios afferrò il colletto del soldato terrestre più vicino, costringendolo a rialzarsi. Gli urlò di stare bassi e poi gli indicò la scalinata interna con un cenno della testa. Lungo entrambi i suoi fianchi, la salita era protetta da una mezza parete. Non avrebbe fermato niente di più pesante di una fucilata laser, ma era di gran lunga meglio di una ringhiera.
    Si piantò in mezzo, lasciandoli scorrere alle proprie spalle. Hahàva li incalzò, fermandosi ogni tre passi per circoscrivere l’area con brevi arcate. Ièn passò per penultimo, l’indice pronto e appoggiato vicino alla scocca del mirino.
    Aurelios annuì a sé stesso e sospirò dalle narici. Il fiato sbatté contro il tessuto del passamontagna, ristagnandogli contro la bocca. Quella giornata non voleva proprio saperne di diventare più semplice. Poco male.
    Raggiunse la scalinata, assicurandosi all’interno del lato sinistro. I gradini di metallo sussultavano sottovoce, scossi da una continua vibrazione. Guardando alla strada, vide il loro Hypaspista che scorreva in retromarcia, lasciando la testa dell’attacco al Gladian. S’infilò in quel che rimaneva del loro muro fumogeno e tre tonfi rimbrottarono per la via, precedendo il volo in alto di altrettanti ordigni fumogeni. Scoppiarono una decina di metri davanti alla prua, alzando presto un nuovo, denso muro di fumo.
    E il sussulto meccanico del loro mezzo si spostò a destra, infilandosi in una calle tra tra due case. Gli spari aurelici, disorientati dai fumogeni, si concentrarono sullo scafo del Gladian. Non era un problema, però; lui poteva incassarli senza difficoltà.
    «Allora, statvs?»
    Il più giovane dei tre terrestri, un ragazzo imberbe e pallido, drizzò la testa. «Ventesima Squadra della Quarta Compagnia, signore!» S’irrigidì come in parata, alzando il braccio verso la testa. «Sessantasettesimo Reggimento delle Guard...»
    Hahàva gli afferrò il polso, fermandolo. I suoi due compagni si bloccarono, incerti se alzare le proprie armi o restare fermi a non fare niente. «No
    Il giovane terrestre la guardò, scioccato e dubbioso. «Ma è un sergente!»
    «Appunto
    Aurelios le segnò di lasciarlo andare e lei eseguì. Era il caso di stemperare la situazione. «Sulla linea non si salutano ufficiali o sottufficiali, ragazzi. Non ve l’hanno insegnato?»
    Il ragazzino abbassò gli occhi, come se punto nell’orgoglio. «No...»
    Phack. «Bene, ora lo sapete. Poi, non tirate su una litania. Quanti siete e con cosa?»
    «Noi tre come avanguardia.» Tre fucilieri sprovveduti. Che grande avanguardia. «Sopra abbiamo un Toxotoì e c’è un Samaritan degli Zevona. C’è anche un Chimera dei Gladius.»
    Aurelios sbatté le palpebre. Tre mezzi in un’area così ristretta e con poco spazio di manovra? Nessuno aveva pensato a quanto sarebbero stati goloso come bersagli per una qualsiasi squadra armata con razzi anticarro? «E con tutta questa schifosa potenza di fuoco voi venite avanti alla spicciolata? Ma siete dei rincoglioniti?»
    E perché avevano un Samaritan? Lo mettevano a rischio, così!
    I tre si guardarono tra loro, prima che il più giovane s’azzardasse a rispondergli: «Così ha ordinato il capitano Marvelon.»
    Aurelios occhieggiò a Ièn, che strinse le spalle. «Venti Troni che è come dice Kevin.»
    Oppure peggio. Se quello era davvero il suo nome, allora i suoi genitori non dovevano averlo amato molto, da piccolo. Chi chiamava il proprio figlio con un nome tanto simile a Malevelon? «Tact-Impeb.»
    «Sì. Allora, ci stai?»
    Bah, tanto lo stipendio mi fa schifo. «Andata. Venti che è un T-I.»
    Dei tre terrestri, a parlare fu un uomo basso e grigio di pelle. «Un che, signore?»
    «Niente», lo tranquillizzò Aurelios. «E non perdere tempo con i gradi. Ora, avete un Vox con voi?»
    «Sì, è sul Toxotoì.»
    «Oh, per Rogal Dorn...» Avanguardie senza una linea di comunicazione diretta. Con cosa volevano comunicare, i segnali di fumo?

    La situazione allo scivolo era molto, molto peggio di come gli era stata descritta.
    Il Toxotoì aveva preso la testa della manovra, arrancando fino all’inizio della discesa. E si era inchiodato lì, con la torretta rivolta, in maniera del tutto inutile, alla parete destra. Al più, guardava al cul de sac della strada, se non al di là dello stesso. Lì, una linea di azzurrini alberi spezza-vento si fermava presso una recinzione verde, al di là della quale c’era un percorso sterrato. Un punto legittimo da tenere sotto osservazione, se soltanto gli aurelici non fossero stati nella direzione diametralmente opposta.
    Se non altro, il Toxotoì era stato camuffato con una colorazione mimetica adatta e varie reti protettive. Massiccio e blindato com’era, spuntava con estrema facilità sopra ai profili già alti tanto del Chimera che del Samaritan.
    E proprio quei due messi erano rimasti bloccati in coda, il primo all’altezza del gabbiotto del sorvegliante e il secondo in mezzo alla corsia d’andata della Provincialii. Un’ambulanza in campo aperto, esposta ad ogni e qualsiasi tiro sarebbe potuto arrivare dal fondo della strada.
    L’ufficiale in comando dei terrestri era, dalla cintola in su, in piedi nella coffa del Toxotoi. Si guardava tutt’intorno con l’aria di chi la sapeva lunga, forse in cerca di una soluzione a tutti i problemi che si era fatto da solo. Li vide risalire e schioccò un saluto, forzando Hahàva ad esalare uno stanco sospiro.
    «Capitano Marvelon Tyarho, Quarta Compagnia del...»
    Ièn accelerò, prendendo il controllo dello scivolo. Segnò che il transito era sicuro e Aurelios lo scavalcò, allungandosi verso il Toxotoì.
    «Abbassi la mano, signore!»
    Il capitano aggrottò la fronte e tornò con ambo le mani sul bordo della sua coffa. La brandeggiabile, con il suo bellissimo e soprattutto efficace scudo balistico, era ancorata alla sua destra, inutilizzata. Una volta raggiunta la prua, Aurelios alzò lo sguardo per incontrare quello dell’ufficiale.
    Aveva piccoli occhi ambrati. «I suoi dicono che avete un Vox.»
    «Sì.» Sul capo indossava un basco verde e lungo uno degli spallacci gli pendeva un corto mantello cerimoniale, bianco e rosso. Se ci avesse dipinto un bersaglio sopra, avrebbe fatto prima. Sia i Severan che gli aurelici avevano i mirini e i tiratori scelti, non lo sapeva? «Ne ha bisogno, sergente?»
    «Mandate un ping sulle onde-corte, signore. Abbiamo un Gladian in strada, è il lead-up dell’attacco. Gli aurelici sono barricati all’interno della Casa del Popolo.»
    «Ah, ratti in trappola», commentò con evidente soddisfazione. E senza chiedere dove, di preciso, fosse questa Casa del Popolo. Quello, però, era scusabile. Forse disponeva di una mappa, oppure ne aveva capito l’ubicazione prendendo spunto dal punto in cui sia lo Hypaspista che il Gladian avevano sparato. «Su che frequenza vi trovo?»
    Aurelios occhieggiò al proprio bracciale, girando il braccio per accedere alla placca interna. Lo sapeva a memoria, ma controllare era sempre meglio. «V-VP2164-1, 1247-04042024.»
    «Ajax!», tuonò il capitano, scavalcando il bordo della coffa e scendendo lungo la prua del suo mezzo. Con una mano sull’auricolare a corto raggio, riportò le coordinate al suo operatore Vox e poi tornò a squadrare la discesa e l’ingresso alla stessa. «Informate il Gladian che può arretrare al nostro arrivo; una volta in posizione, assumeremo il lead-up dell’attacco.»
    Aurelios s’accigliò: «Signore?»
    Quell’interruzione gli suscitò un sopracciglio inarcato. «Sì? Parli pure, sergente.»
    No, non aveva proprio capito niente. Aurelios sollevò una mano all’altezza del fianco, come a chiedere spiegazioni. «Il Gladian è un carrarmato, signore.»
    «Ah-ah. Ne sono cosciente, ma vada avanti.»
    «Voi avete un VPIC.» Il Toxotoì era un cane arcigno, senza alcun dubbio. La sua sagoma rimandava al Chimera, del quale forse era un parente derivato. Però restava un veicolo da combattimento per la fanteria, al più il cugino brutto di un Chimedon fortificato. «Siete sicuro del vostro ordine?»
    Quella domanda doveva averlo punto, perché lui s’irrigidì. «Certo. Un ufficiale comanda senza dubbi. Un soldato esegue senza riserve.»
    Ièn si coprì il visore con la mano.
    «Capitano?»
    «Dica, sergente.»
    Aurelios gli si avvicinò d’un altro passo. «Non sappiamo di che armamenti siano in possesso questi aurelici, ma potrebbero avere degli anticarro. Il Gladian ha la reattiva. Il suo mezzo no. Lei è sicuro di voler fare arretrare il carrarmato?»
    L’ufficiale intrecciò le mani dietro la schiena. «Sta discutendo i miei ordini, sergente?»
    «No, no, certo che no.»
    «Ah, ci mancherebbe.»
    «Tuttavia, vorrei...» Mi serve una puttanata efficace. «Confermare all’equipaggio del Gladian il check-up operativo-componente della sua colonna, capitano. Così da informarlo precisamente su quali unità andrà a coprire una volta che avrete giustamente assunto il lead-up dell’operazione tattico-strategica attualmente in corso.»
    L’ufficiale assentì con infinita gravità. «Molto bene, sergente. Sono al corrente della fama di cui gode la vostra unità, quindi sono certo che sarete rapido. Procedete pure.»
    «Sì, signor capitano Malevolon
    «Marvelon.»
    Sicuro? Sgusciò via senza prestargli attenzione. Hahàva venne con lui, lasciando a Ièn il compito di mantenere una forma di retroguardia al principio della discesa. Rallentò il passo per dare tempo alla compagna di squadra di raggiungerlo e, quando lei fu al suo fianco, attivò il sistema ad onde-corte tra i loro elmetti. «Capitan Malevolon è un coglione.»
    «Ho colto», bofonchiò lei rimettendosi il Merovech a tracolla. Un passo dopo lo guardò di sottecchi. «Ma sul serio si chiama così?»
    «Ah, boh!» Marvelon? Malevolon? Uno valeva tanto quanto.
    Il Chimera dei Gladius era un buon quindici metri in coda rispetto al Toxotoì, presso il gabbiotto del metronotte. La squadra a bordo si era divisa in due tronconi, con una metà che si era disposta a costituire un perimetro attorno al mezzo.
    L’altra metà era rimasta tra il portellone d’uscita e la torretta.
    Il loro Chimera era un modello ruotato. Dipinto a strisce blu, grige e nere come il Gladian, doveva esserne il paio di supporto e assalto. Approcciandolo, Aurelios lanciò un cenno alle proprie spalle. «Oyàh, fulks. Chi di voi è in comando?»
    Un sottufficiale come lui rispose con uno sbuffo all’indirizzo del grosso veicolo terrestre. «Beh, in teoria quell’immenso coglione. Se no, il sottoscritto.»
    Aurelios gli offrì una stretta d’avambraccio, che il gladiano ricambiò con vigore.
    «Aurelios Markhairena, sergente veterano. Cento-sessantaquattresimo Elysia.»
    «Klayton Garvo, sottotenente di prima classe. Ventunesimo-Sedicesimo Meccanizzato di Gladius», gli rispose, lasciandolo andare dopo un momento. «È bello rivedere voialtri ragazzi di El’ena.»
    «Lo stesso vale per noi. Ascolti, il capitano...»
    Klayton alzò gli occhi al cielo. Indossava l’elmetto da combattimento, ma la visiera era sollevata. Sulla sua panoplia c’erano stinte tracce di combattimento, probabilmente ottenute durante le prime fasi dell’avanzata a Chernobasa. «Che dici, Elysia? È inabile alla vita?»
    Quello prometteva bene. «Non solo...»
    Gli occhi grigi del sottotenente si strinsero: «Attento a come procede, sergente. Le vorrei ricordare che se dovesse dire qualcosa di pericoloso o incline alla sedizione, soprattutto in un teatro operativo prono alle infiltrazioni separatiste quale lo stante presente, io potrei essere tenuto a riferire nel mio rapporto...»
    Aurelios chiuse e riaprì gli occhi, allungando la sinistra all’impugnatura del suo Accatran-Pattern. No, non potevano essergli capitati due idioti uno in fila all’altro, per l’Imperatore-Dio e tutto il Pantheon della Svper Sacra Terra.
    L’ufficiale gladiano lo sorprese, stringendogli le spalle con il braccio e facendogli abbassare la testa. In quello stesso momento, con i loro elmetti che si toccavano, Klayton scoppiò a sorridere sornione, quasi come se fosse un gatto che aveva appena visto una preda. «Dicevo, riferire nel mio rapporto in merito alla tua faccia da criminale. Allora, qual è il piano?»
    Cazzo, sì! «Toglierlo di mezzo prima che faccia morire metà dei presenti.»
    Klayton grugnì tra sé e sé. «Ci sta. Lo fragghiamo?»
    La tentazione era forte, ma l’ingresso dello scivolo aveva delle telecamere. Li avrebbero visti. «Potrebbero accedere ai circuiti chiusi. No, niente di così fatale. Io dico, mettiamolo K.O. E la colonna passa a lei. Che ne dice?»
    «Dammi del tu.» Il sottotenente squadrò la propria squadra, trovandovi più d’una solida espressione d’approvazione. I fanti meccanizzati, bardati con le giacche antischegge mimetiche e le las-carabine modello corto, occhieggiavano al Toxotoì già da alcuni attimi. «Hai idee su come procedere?»
    «Sì, ma prima vorrei vedere cosa ne pensano quelli del Samaritan.»
    «Ah, gli Zevona. Non capisco perché il genio li abbia lasciati in mezzo alla strada, è la nostra unica ambulanza a portata di mano.»
    «Appunto!» Sciolse le spalle muovendole avanti e indietro, quindi segnò ad Hahàva di restare presso il Chimera. Avrebbe impedito al capitano terrestre di cogliere che stavano complottando qualcosa, anche se per farlo avrebbe dovuto essere più intelligente di quel che era. Scalpicciando, Aurelios lasciò i gladiani alle proprie spalle.
    Tagliò attraverso la Provincialii, portandosi al più presto dietro i cingoli del Samaritan. Sulla mimetizzazione sabbia e celeste portava uno stemma, rosso e argento, da Ordo Hospitaller.
    Sororitae, quindi. Potevano essere più difficili da persuadere. La conduttrice era in testa alla cupola ed era, effettivamente, una Hospitaller in leggera armatura potenziata. Con sé, pendente da una tracolla, aveva un singolo fucile Requiem.
    Aurelios le segnalò la propria presenza e alzò il visore del proprio elmetto. «Buongiorno!»
    «A lei.»
    La rampa posteriore disinnescò i freni, calando presto sull’asfalto. Colto il punto, Aurelios scattò alle spalle del mezzo. Abbassò la testa, risalendo in fretta la rampa fino al percorso interno del blindato medico. Dentro lo scafo, diversamente da com’era per il loro Hypaspista e il Gladian, l’ordine regnava sovrano e assoluto, assieme ad effluvi d’incenso e un forte odore d’unguento igienizzante.
    Seduti sulle panche laterali c’erano due Hospitaller e tre infermieri, quest’ultimi con le mimetiche zevonesi in tinte fumose sabbia e celeste. Le Hospitaller si alzarono all’unisono, stando a testa china per non urtare il soffitto d’acciaio. Una indossava un paio di lenti scure, simili a degli occhiali da sola, ed era così bianca da sembrarle lattescente. L’altra aveva un velo bianco in testa, ma era più bronzea. A parlargli fu la prima, rivelando un modico accento zevonese. «C’è qualcosa che possiamo fare per lei?»
    «Mi servirebbe parlare in privato con la vostra superiore.»
    Quella bronzea strinse le spalle. «La remissione dei peccati è un rito dei prelati, soldato.»
    «Sì, sì, lo so. Il punto è un altro.»
    Pestando sui gradini della scaletta d’accesso, la conduttrice scese dalla cupola. Saltò giù dall’ultimo piolo, venendogli incontro a testa bassa e con una mano sulla cassa del Requiem. «Penso di sapere perché lei è qui, Elysia.»
    «Non sono ferito.»
    «L’ho notato. Senta, sergente… se non spara a quel passacarte della Terra, lo farò io.»
    Aurelios non poté esimersi dallo schioccare le dita. «Sapevo di poter contare su di lei, Sorella.»
    «Lo scansa-moduli ci ha ordinato di fare da retroguardia, ha bloccato il Chimera dei gladiushish e poi è rimasto bloccato davanti allo scivolo. Retroguardia con un Samaritan, si rende conto?»
    «Perfettamente.» Tuttavia, sparargli presentava alcune complicazioni. «Ma vorrei evitare un conflitto tra reggimenti, se possibile.»
    «Come se questi terrestri potessero battersi decentemente...», mormorò la Sorella con le lenti protettive. «È già tanto se sanno da che parte impugnare il fucile.»
    «Consorella Tarvya, parlerò io», la rimproverò la conducente. Le sue due sottoposte avevano delle pistole laser appese alla cintura, ma tutto il resto del loro equipaggiamento era di natura medica. «Avanti, sergente Markhairena. Dica pure.»
    «Prima di tutto… avete dell’acqua?»
    La conducente, che doveva essere la Sorella Superiore delle due, reagì alla sua domanda aggrottando la fronte, ma non fece domande. Sciolse gli allacci della sua borraccia dalla cintura e gliela porse. Ringraziato con un cenno del viso, Aurelios prese a ingollarne il contenuto.
    Avrebbe bevuto fino in fondo, ma togliere l’acqua ad una Sororitae sarebbe stato indecoroso. Si fermò dopo un paio di sorsi, asciugandosi le labbra con la manica. «Ah, grazie!»
    «Ci mancherebbe, acqua agli assetati...»
    «Erano ore che non bevevo.»
    Le due subalterne si scambiarono un’occhiata tra loro e quella con le lenti assentì piano. «Allora, come vuole agire con il capitano Pratica Tolusso


    Spathis: forma abbreviata di Spathian/Spathiano/Spathiankoi. Sono di un ricco, barocco e potente Sector nel Segmentvm Obscvrvs. Le loro lingue sono distanti cugine dello Ishtariko e del Haroniko. Aka... è basato sul bulgaro.

    Toxotoì: mantenendo la nomenclatura greca per la roba sia della Solar Auxiliia che del Mechanicvm, il Toxotoì è un prodotto derivato dallo stesso STC del Chimera. Esiste in formato artiglieria, l'equivalente del Basilisk, in formati noti come Archer, Paladin e simili.

    Terrùcolis: come i gladiani apostrofano i terrestri. Grossomodo, terristrucoli. Il nomignolo si è diffuso.

    Tact-Impeb: Tactica Imperialis Imbexil. Imbecille della Tactica Imperialìs, qualcuno che segue pedissequamente le istruzioni contenute in questi volumi, dimenticandosi che vanno adattate alla situazione e prese come ispirazione, non come regola generale.

    Samaritan: Chimera adibito a trasporto medico.

    Yoh, mataphack stul m’coums!: "Oy, motherfucker stole my comms!". I Gladiani, lo cogliete anche dall'uso di OK, parlano un qualcosa effettivamente derivato da un inglese molto corrotto e contratto.


    Edited by dany the writer - 4/4/2024, 23:14
     
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    Capitolo I-H
    Hahàva Voini’ìl




    +++Segmentvm Obscvrvs
    Hera-Amiir Sector
    Espansione di Zaqqurava
    Sistema Stellare di Hervara

    Hervara IV-B, Mondo-Civilizzato
    Continente di Invyyere

    Portal Danòrra, 201 chilometri SO da Negemyn
    M42.Y022+++


    Aurelios era scomparso all’interno del Samaritan degli Zevona. Qualsiasi cosa stesse confabulando con le Sorelle laggiù, doveva darsi una mossa; restare troppo a lungo allo scoperto, inchiodati davanti all’ingresso della subalterna, offriva al nemico un bersaglio goloso.
    L’eco di una raffica di mitragliatrice ruzzolò fin alle sue orecchie. Dalla cima della discesa era complicato vedere in dettaglio la subordinata, anche per via dei fumogeni, ma il loro Hypaspista stava arretrando, lasciando al Gladian la guida dell’attacco.
    Hahàva scrutò il blindato medico per la settima volta in un minuto, strizzando gli occhi nell’attesa che Aurelios uscisse dal portellone.
    Dovevano togliersi da lì, per la Svper Sacra Terra. Ma ancora nessun movimento, salvo il guardarsi attorno del mitragliere stazionato in cima alla torretta del Samaritan.
    Lui era un commilitone vero e proprio, con indosso l’anti-schegge e la mimetica vecchio stile, in toni sabbia calda e azzurro chiaro, della Guardia della Legittima Superba. Un dettaglio difensivo assegnato all’equipaggio medico, forse prelevato da qualche unità in esubero di personale.
    Hahàva non lo invidiava affatto; tra il suo Samaritan e il loro Hypaspista, quale mezzo fosse il più fragile era proprio una bella gara.
    Dalla subalterna provenne un rullio di tamburi meccanici, al quale seguì un lagnoso tempestare di cingoli in moto. Voltandosi a guardare la strada, Hahàva individuò il loro Hypaspista mentre usciva, procedendo in retromarcia, da un braccio di schermo fumogeno. La squadra ne tallonava la poppa, tenendosi al passo e coprendone il tattico riposizionamento con brevi raffiche.
    Il Gladian, invece, era andato più avanti. Sentiva il contiguo borbottio del suo motore, ma senza visuale termica non poteva vederlo in mezzo al fumo. Si era succeduto allo Hypaspista nel fare da testa all’attacco, rovesciando due scariche di auto-cannoncino sulla Casa del Popolo.
    Ora faceva tacere quel pezzo d’artiglieria, ripiegando sulla brandeggiabile per fare fuoco di copertura allo Hypaspista.
    Da qualche parte, in alto sopra alle case, c’era il drone di Zhì.
    Inclinato il proprio Merovech, Hahàva vi gettò gli occhi sopra. La spia informativa della cella energetica principale era ancora azzurra; il display montato in cima alla cassa registrava ancora una capacità per cinquanta colpi esplosi a media potenza. Ticchettò sul tastino laterale, passando alla visualizzazione se avesse usato la massima carica possibile per ogni sparo.
    Sullo schermo apparve un venti.
    Riportò il display sulla media intensità, passando a verificare quanto stabile fosse l’innesto della cella primaria nel vano caricatore. I Merovech avevano il difetto di surriscaldarsi presto se li si usava in fuoco automatico continuato, e il calore dilatava i fianchi dell’innesto. La cella poteva cadere a terra, il che non era molto salutare nel mezzo di uno scontro a fuoco. Provò a smuoverla, tirando avanti e indietro e tenendo l’indice a lato della scocca di tiro.
    L’attacco era saldo.
    «Cazzo, sorella, è un Merovech?» esordì uno dei Gladius del Chimera. Balzò giù dalla fiancata, accucciandosi alla sua destra. Dalla voce e dal viso, era più o meno della sua età. Hahàva gli annuì e torse l’arma all’esterno, così che lui potesse guardarla meglio.
    «Phay’» fischiettò lui, aguzzando la vista sull’arma. «Ma gli hai tolto una canna?»
    Rimbombi in lontananza percorsero il cielo, scuotendolo come un sacco da pugilato. Il supporto navale aveva ripreso a scambiarsi colpi con lo schermo Severan.
    Hahàva aggrottò la fronte. «No. Ne ha una sola.»
    «Ti giuro, io credevo che ne avesse due...»
    Due canne? Rilassando la propria espressione, Hahàva scosse il capo: «No, phrà. No, no. Quello che dici tu è il Tintagel e ce l’hanno i Jentala.»
    Il soldato gladiano si diede una botta sulla calotta frontale dell’elmetto. Il colpetto rintoccò per lo spiazzo davanti al gabbiotto, sordo e basso. «Ah, sì!», disse, prima di guardarsi attorno con il calcio del suo las-fucile piantato sotto l’ascella. «Il Tintagel.»
    «Vai tranquillo.»
    «Oh, come funziona la doppia cella?»
    Aurelios era ancora nel Samaritan. Cosa stava facendo per metterci così tanto? «Spari della principale e quando la scarichi, passa da solo alla secondaria. Ma se vuoi, o ti serve, puoi fare il cambio da te.»
    Gli mostrò un piccolo pulsante, vicino al selettore del display. Per fargli capire la questione, lo schiacciò e sullo schermo il conteggio dei colpi passò all’istante a sessantasei. Una seconda pulsione lo riportò a cinquanta, riattivando la cella principale. «Visto?»
    «Bella roba.»
    Riallineò l’arma al proprio spallaccio, stando attenta a non toccare il grilletto. «Questo è il mio bambino. Butta giù un volume di fuoco che lo fa venire duro pure all’Imperatore, se ti serve.»
    Il gladiano fischiettò di nuovo. «Non farti sentire dal terrùcol o dalle Sorelle, eh.»
    Chi, il capitano incompetente o il personale medico che lui aveva lasciato allo scoperto nel bel mezzo del niente? «Um’nekhà!»
    Dalla subalterna risalì uno scambio di spari, calibri pesanti da mitragliatrice. Hahàva sbirciò la placca toracica del suo interlocutore, sulla quale stava scritto IGPC-KYL FAAR. «Ti chiami Kyl? Sul serio?»
    «Kayl», rise lui. «Ma i rincoglioniti a Fort Yuma hanno sbagliato a trascrivere.»
    Ah, adepti del Munitorum che non sapevano fare il minimo lavoro necessario! Una storia vecchia quanto la Svper Sacra Terra, davvero. Gli offrì una stretta d’avambraccio. «Be’, capita. Piacere di conoscerti. Hahàva Voini’ìl, Cento-Sessantaquattresimo EDT.»
    La presa del gladiano era ferrea e sicura di sé. «Kayl Fareth. Ventunesimo-Sedicesimo di Gladius. Oh, dici che si spiccia il tuo amico?»
    «Lo spero...»
    Kayl mugugnò sottovoce e scoccò un cenno al gabbiotto. Al di là del guardrail stradale si allungava un percorso alberato, una striscia taglia-vento, limitata due metri all’interno da una semplice recinzione. Sovrastava la subordinata, barricando l’ingresso a quello che poteva essere un frutteto così come un parco ricreativo. Quel che fosse, era un fianco che avrebbero dovuto coprire. Il capitano terrestre, però, non aveva mosso neanche una sentinella.
    Dannato incapace.
    «Ventunesimo-Sedicesimo?»
    A rispondere alla sua domanda fu un compagno di Kayl, accovacciato davanti all’infossatura del cannone automatico del loro Chimera. «Uh-uh. Siamo un’unità RIP.»
    «Una Riposa in Pace?», si sporse in avanti Ièn, per poi ridere tra sé e sé. I gladiani si unirono a lui, trovando la sua squallida battuta più divertente di quel che era. «Scusate, era troppo bella.»
    «Da morire, guarda!», s’introdusse un terzo gladiano. Sbarcò dal Chimera, prendendo il fianco interno e abbassando il proprio las-lungo di precisione. Arrotolato sul suo spallaccio sinistro c’era un mantello mimetico, stretto in un rotolo dal rigore d’ un paio di cinture, dalle quali pendevano altrettanti corti, fitti sigilli di valore. «Siamo due reggimenti mischiati in uno solo: Ventunesimo Reggimento Corazzato di Gladius, Sedicesimo Truppe d’Urto di Fort Yuma.»
    «Uh-ah!», esclamò il tenente Garro e i suoi uomini gli fecero subito eco. Si sarebbe unita a loro, gli piaceva quel senso di cameratismo, ma appropriarsi dei motti degli altri reggimenti senza il permesso degli stessi poteva essere molto grave. Era una questione di rispetto, e poi ai gladiani si diceva che piacessero i duelli d’onore.
    Kayl occhieggiò ai suoi due amici, sia quello sullo scafo che il tiratore appena sceso giù. «Lui è Timmy, mentre questo coglione con il mantello che si crede un Helldiver è Alksot.»
    Timmy?!
    «Fottiti, Kayl.»
    «Con tua sorella, spero.»
    Alksot scrollò le spalle con simpatica noncuranza. «Vai pure! Ne ho sei, prendi quella che vuoi.»
    «Sei?» gli chiese per essere sicura d’aver sentito bene. «E sei l’unico maschio?»
    Il tiratore le rispose con un cenno d’assenso. «Yupah.»
    La sua vita a Gladius doveva essere stata terribile. «Chyz, phrà. Ce ne hai messo di tempo a voler uscire fuori dai geni di famiglia, ey?»
    «Non dargli troppo addosso», mormorò Kayl. «Sua madre voleva assolutamente la medaglia d’onore come Generatrix Imperialixima.»
    «E l’ha presa!», sghignazzò il gladiano, battendosi il pugno sul torace nella parodia di un saluto militare rigoroso e serio. «Due volte!»
    Hahàva vide Kayl occhieggiare al veicolo dei terrestri. «Allora, Selma? Che ne dici?»
    «Pensavo che fosse Veelma quello che te lo tirava su.»
    «Ah, sì, lei! Beh, anche Selma…»
    Timmy batté il piede sullo scafo. «Selma è già mia, stronzo. Me l’ha promessa.»
    Il tiratore scelto si dedicò alla lente del suo las-lungo, pulendola con la manica dell’uniforme. «Ah, sì. Beh, ve le potete scambiare tra di voi!»
    «Se ne hai una anche per me», commentò Ièn da presso il gabbiotto, «sappi che accetto volentieri.»
    «Te ne propongo due.»
    «Due?!»
    Alksot ribadì il numero. «Sì, è quello che ho detto. Buone donne, eh! Non ti sto offrendo mica delle racchie. Leali al Trono, oneste ausiliarie! Oligarchici, imperialissimi fianchi per fare imperialissimi figli come un Manifactorvm.»
    Ièn abbassò il capo, continuando a ridere tra sé e sé. «Ma così non mi costano due doti?»
    «Sì ma, tipo...», Alksot gli si avvicinò, mettendogli una mano sullo spallaccio. «Bruh, è un investimento. Tu mi cacci fuori due doti, le fai spawnare quattro o sei nuovi stronzetti e Gladius ci paga un vitalizio per aver dato alla Causa nuovi figli. Ci stai?»
    «Se la metti così, mi sa di affare...»
    Libri si stava divertendo troppo, era il caso di abbatterlo prima che decollasse: «Non vuoi i suoi geni in famiglia, amico. Ièn, qui, è un piccolo stronzetto socialista.»
    I gladiani s’irrigidirono. Il primo a prendere la parola fu proprio il tiratore scelto, che abbassò la testa per essere praticamente a portata di bisbiglio con Ièn. «Sta dicendo il vero?»
    «No!»
    «Sei come uno di quegli eretici simpatizzanti per gli Automatons?»
    «Ma col cazzo, proprio!», s’inalberò Ièn, alzando la testa per scoccarle un cenno. «È lei che è una stronza e non sa leggere.»
    Hahàva scrollò le spalle. «È sempre un piacere rovinarti la giornata, Ièn.»
    «Vai a farti fottere.»
    «Di sicuro non da te.»
    «E chi cazzo ti vuole?», sogghignò lui dietro l’elmetto, prima di riavvicinarsi al gladiano di nome Alksot. «Oh, fammi vedere queste due sorelle che dici.»
    Timmy prese la parola: «Eh, no. Ora dobbiamo assicurarci che tu non sia un simpatizzante degli Automatons di merda, o qualche altro tipo di socialista perverso.» Da come l’aveva detto, c’era una misura di serietà ma lo stava anche prendendo in giro.
    Libri indietreggiò, come offeso. «Sono un genuino patriota dell’Imperivm.»
    «Credi con tutto il tuo cuore nell’Imperiale, libero, prospero e oligarchicamente-controllato stile di vita dell’Imperivm?!»
    Alzò il braccio flesso verso di sé, come a salutare l’alzabandiera imperiale. «Cazzo, sì!»
    Timmy spinse il petto in fuori: «Credi con tutto il tuo cuore nella Libertà, nella Gloria Imperiale e nella Democratica, Assoluta, Divina e Incontestabile Autorità dell’Imperatore-Dio?!»
    Ièn scosse il pugno. «Eyhà!»
    «E cosa dici degli Automatons?!»
    «Anti-imperiali, anti-democratici, atei...», prese fiato prima di continuare. «Eretici, stregoni, anti-oligarchici anarchici. Devono morire tutti e l’hanno cominciata loro, come questi separatisti.»
    Alksot gli offrì una stretta d’avambraccio, che Ièn ricambiò subito. «OK, Elysia. Per me sei pulito. Ti puoi fottere le mie sorelle. Ma voglio quei quattro-sei stronzetti, che i soldi sono buoni.»
    «Te ne faccio anche otto.»
    «Andata!»
    Libri tornò alla sua posizione, accovacciato e con l’arma pressata contro lo spallaccio. «Lo amo fottutamente tanto questo Imperivm.»
    «Uh-ah!», gli risposero in coro i gladiani.
    Aurelios emerse dal portellone di poppa del Samaritan. Controllò l’area attorno a sé, prima di muovere nella loro direzione. Si tenne basso, con l’Accatran tenuto per l’astina e in condizione di sicurezza. Li raggiunse e sganciò l’elmetto dalla cintura.
    «Bene, ients.» La sua voce era soddisfatta. «La costa è libera.»
    Alksot s’inalberò con la testa: «Uh, sarge? Cos’è una costa?»
    Sul serio? «Dove la terra incontra il mare.»
    Il tiratore scelto gladiano le rivolse un cenno: «Ah, chiaro.»
    Decidendo di non indagare oltre, Hahàva si volse verso Ièn. Libri fu rapido nell’affiancarla, portandosi tra lei e il sergente. Quest’ultimo si rimise l’elmetto e abbassò il visore, la cui lente si polarizzò nel corso di qualche secondo.
    «Allora?» esordì il sottotenente Garro. «Come procediamo?»
    «Posso prendere con me un paio dei suoi, signore?»
    «Timmy? Kayl?»
    I due gladiani così nominati si portarono subito alle spalle di Aurelios, accompagnati nel loro muoversi dai sussulti e dagli sbuffi del loro equipaggiamento. Sullo spallaccio del secondo, vide Hahàva, campeggiava una piccola decalcomania decorativa, racchiusa dentro gli allori spinati della Guardia Imperiale del Sector di Gladius.
    Piegandosi in avanti dalla sua coffa, il sottufficiale Garro abbassò il proprio tono di voce: «Andate con il sergente dal terrùcol e dategli corda, qualsiasi stronzata dica.»
    Come loro annuirono, Hahàva aprì la bocca per dire qualcosa. Si fermò prima, optando per evitare. Era quello il loro piano? Rifilare una secchiata di stupidaggini al terrestre e sperare che se le bevesse tutte? Poteva funzionare, ma…
    «Lo togliamo di mezzo e ci spostiamo da qui, intesi?», spiegò Aurelios. «Non tiriamo su qualcosa che attiri i Giacconi. Appena è fuori gioco, facciamo spostare il Samaritan e...»
    «Ma voi sentite un fischio?», s’inserì Alksot, scoccando un cenno al cielo sopra di loro. «Oppure sono io che...»
    Il colpo cadde quindici metri troppo esterno, picchiando sull’asfalto con un grido finale e acuto. Lo scoppio sprizzò in alto un corto, basso geyser di fuoco e polvere d’asfalto. Al suo arrivo, Hahàva si schiacciò sul manto stradale, portando il braccio destro sopra al proprio elmetto. Le schegge le sibilarono sopra, sbattendo contro lo scafo del Chimera gladiano.
    La pioggerellina perdurò un paio di secondi, acquietandosi in mezzo ai borbottii dei mezzi e alle chiamate tra le truppe sorprese dal colpo. Riavendosi sui gomiti e sulle ginocchia, Hahàva riguadagnò l’impugnatura del suo Merovech-Pattern, scuotendo la testa per liberarsi del fischio che le martellava i timpani.
    «Non allertatevi troppo!», gridò il capitano terrestre dal suo Toxotoì. Stringendo gli occhi sulla sua figura, Hahàva sentì il nitido desiderio di aprirgli una cerniera toracica con una raffica a bruciapelo. «È stato un colpo casuale e senza mira.»
    Ièn si girò verso di lei, offrendole una vista della sua visiera abbassata e già scurita. «Ma questo idiota fa sul serio?!»
    Un secondo fischio volò sopra alle loro teste, finendo a sbattere nella corsia d’andata della Provincialii. Più distante, il suo scoppio non produsse né feriti né vittime. Gli shrapnel continuarono a cadere, rintoccando contro il tarmac, per un paio di attimi prima d’esaurirsi.
    «Io l’ammazzo...»
    «Sergente!», tuonò il terrestre. «Posso avere un aggiornamento sul controllo che ha richiesto? Ci sta facendo rimanere fermi.»
    Aurelios strabuzzò gli occhi.
    «Allora? Vorrei una risposta, di grazia!»
    «Hah?», le disse lui.
    Non le serviva sapere altro. Spingendosi sul dorso della schiena, appoggiandosi allo scafo del Chimera, Hahàva disinnescò la sicura del Merovech. Gli rivolse un pollice alzato per comunicargli che l’arma, ora, era pronta e in grado di sparare e lui s’alzò.
    Lo seguì al Toxotoì, facendo un breve scatto per stare dietro alle sue falcate. S’inginocchiarono presso la cintura cingolata destra e Aurelios le segnò un angolo retto che andava da loro alla recinzione. I colpi di mortaio erano venuti da lì.
    «Sergente, non è esattamente ottimale che un ufficiale si muova così curvo», riprese il capitano, alzando una mano in segno d’esasperazione. «Dà una pessima immagine alle truppe!»
    Schiacciata una mano sulla gonna della cintura cingolata, Aurelios s’issò sullo scafo e con un colpo di reni s’aggrappò ad una maniglia di sostegno che sporgeva dalla torretta. La lasciò alla sinistra, liberando la destra per qualsiasi cosa avesse intenzione di fare, e poi infilò il piede sopra ad un secondo sostegno per portarsi faccia a faccia con il terrestre.
    «Signore, ci stanno colpendo con un mortaio!»
    Il capitano sbuffò. «Colpi imprecisi e casuali. Non sanno dove siamo.»
    Il quarto ordigno cadde molto, molto più vicino dei suoi predecessori. Deflagrò all’impatto con la strada, non più di dieci metri sulla loro sinistra verso la corsia d’andata e l’urlo delle sue schegge scavalcò le grida e gli avvisi dei soldati inchiodati presso la discesa.
    Il terrestre schioccò la lingua. «Forse hanno una vaga idea, ma non cambia il nostro piano d’attacco. Se ha finito, procediamo come ho stabilito poc’anzi.»
    Hahàva alzò la testa. «Signore, lei è un co...»
    «Soldato, sto parlando con il suo sottufficiale!», sbottò lui. «Abbia rispetto, per la Sacrosanta Super Terra. Non siamo certo degli aurelici, qui! O degli Irlaviani. Loro sì che sono indisciplinati, malnati, rozzi campagnoli buoni a nulla e probabilmente...»
    «Signore, un’ape!» E come esclamò quelle tre parole, Aurelios gli sferrò un gancio destro sulla faccia. Il colpo gli impattò sul viso con la forza di un camion, strappandogli un paio di denti e spedendo l’ufficiale terrestre a sbattere con violenza contro il bordo inferiore della torretta. Da lì ricadde bocconi in avanti, gli occhi rovesciati e un rivolo di sangue che gli scorreva giù dalla faccia.
    «Elysia, l’hai ucciso?» urlò il tenente Garro.
    Aurelios controllò il respiro del capitano, poi lo spinse giù dalla coffa con un colpetto del palmo. «Nah! È solo svenuto.»
    «Peccato!»
    Già.
    Con un bel colpo di reni, Aurelios saltò giù dal Toxotoì e si piegò sulle ginocchia. Lasciò il suo Accatran alla sinistra, disegnando con l’indice destro un cerchio sopra alla propria testa. Il Samaritan non perse nemmeno un secondo e riaccese i motori a pieno regime, avviandosi in retromarcia per portarsi il più lontano possibile dalla discesa.
    Dal fondo della recinzione sopraggiunsero dei dardi cremisi, non fitti ma di secondo in secondo più stretti e precisi nel cercare di colpirli. Una manciata di proiettili esplosero contro la fiancata del Chimera dei Gladius, sprizzando scintille cremisi a mezz’aria.
    «Tenente!», esclamò Aurelios scattando nella sua direzione. Hahàva lo seguì a ruota, aguzzando lo sguardo alla recinzione e gli alberi al di là. Il fuoco di soppressione, se così poteva essere chiamato, veniva da lì. Una squadra di tiratori, forse?
    Garro non perse nemmeno un solo secondo. «Ci muoviamo!»
    Con un tuonante borbottio, il Chimera arretrò di tre metri e girò sul proprio asse, rivolgendo la propria prua alla recinzione sulla destra, avanti in laterale rispetto alla discesa per la subordinata dove il Gladian e lo Hypaspista erano all’opera.
    Sia il suo Requiem montato in punta di scafo che la brandeggiabile in cima alla torretta presero vita con un doppio tuono metallico, esplodendo una doppia, intensa raffica all’indirizzo del bosco oltre stante la recinzione.
    La las-fucileria scemò in meno di un secondo sotto quel martellio di calibri pesanti. Grida e avvertimenti fioccarono tra gli alberi, distinti da un chiaro accento Severan.
    Ripresero a sparare alcuni attimi dopo. Ora, osservò Hahàva, la loro risposta allo sbarramento delle mitragliatrici era più sparuta e intervallata. I colpi non venivano più sempre dagli stessi punti, nascosti in mezzo agli alberi da frutto, ma si muovevano su e giù lungo l’orizzonte della linea taglia-vento. I tiratori, dunque, stavano cercando di non offrire alle loro mitragliatrici un bersaglio facile.
    Sobbalzando in avanti, il Chimera abbatté la recinzione. La sua trama a maglia finì divorata dal ritmo rullante dei cingoli, crollando all’indietro e appiattendosi sotto al peso del mezzo. Rilasciata una seconda scarica di sbarramento con il Requiem pesante, il veicolo arretrò, ma senza girare sul proprio asse.
    La prua era la parte più resistente, offrire la poppa al nemico sarebbe stata una stupidaggine.
    Un tonfo metallico annunciò il riemergere del tenente. Hahàva gli offrì un cenno con il pollice e lui rispose tirando i grilletti della brandeggiabile; descrisse due brevi tiri a ventaglio nella boscaglia, mirando ad altezza d’uomo.
    Alcuni degli alberi, non meno d’una dozzina, presero a stormire sotto quella fiumana di proiettili. Il crepitio delle fiamme salì da basso, schioccando in sottofondo alla lagna dei cingoli.
    «Ora è lei in comando, tenente!», gli disse Aurelios. Garro sbuffò tutto soddisfatto e riprese a fare fuoco di soppressione.
    «Ottimo! Facciamo arretrare quel cazzo di Samaritan e snidiamo questi bastardi.»
    «Così mi piace!» disse Hahàva. Al termine di un breve scatto, incontro ai punti d’origine della fucileria laser, l’assaltatrice si gettò in avanti a terra, strisciando sopra alla recinzione abbattuta. Adottò il tronco d’un albero come riparo, addossandocisi con lo zaino tattico.
    Ièn l’affiancò un momento dopo, dardeggiando a sinistra per prendere un riparo più defilato.
    «Lieto che apprezzi le maniere di Gladius, paras!»
    Sorse spontaneo e di gruppo, da lei come da Ièn e da Aurelios. Da tre Elysiani, piuttosto che dai soldati meccanizzati del Chimera, che nel frattempo stavano offrendo loro un buon fuoco di copertura. «Toste e veloci!»
    I gladiani dovettero proprio apprezzarlo, considerando come risposero.
    «Uh-ah!»
    Cessando il fuoco, Garro ordinò al guidatore di procedere in retromarcia ancora un po’. Borbottando, il Chimera si portò a sei metri dal foro nella recinzione, poi riprese a coprirli, alternando la mitragliatrice brandeggiabile al fuoco del pesante Requiem di prua.
    Alksot, Kayl e Timmy sopraggiunsero al principio della boscaglia, tutti rapidi nel gettarsi sull’erba e tra i rami per non offrire al nemico bersagli facili. Innescato il lanciagranate sotto la canna del suo Merovech, Hahàva tirò il detonatore, incassando il rinculo contro lo spallaccio. Venti metri più avanti, una breve nube di fuoco e polveri nacque e s’espanse sopra a delle grida.
    Un ruzzolare colse la sua attenzione, portandola a sporgersi verso destra. Si ritrasse di colpo, allungando la mano fare da barriera a quel che stava arrivando. Rimbalzando ora dalla canna e ora dal calcio, un las-fucile Kantrael piroettò fin da lei, finendo nella sua presa.
    Sulla cassa c’era lo stemma del Severan Dominate.
    «Oooh, grazie!», rise lei all’indirizzo dei separatisti. «Ma davvero! Grazie mille, rincoglioniti!»
     
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