La saga di Umberto Sgarri

Un soldato imperiale, un ubriacone tileano, un eroe da osteria... Uberto Sgarri è tutto questo ed altro ancora

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    Quello dei due campioni che si sfidano accerchiati dalle loro truppe è un topos classico...non vedo cosa c'entri troy. Volendo essere banali lo ritrovi su tutti i regolamenti di warhammer dal primo all'ottava nel paragrafo Sfide.
     
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    la serietà e qualità con cui scrive Dahu dubito fortemente che abbia mai visto filmacci come Troy :asd:
    300ciento dicono sia bello... ma a me non piace comunque... :omg:
    questo racconto sì! :nuuu:

    l'unica vera pecca di Dahu è che deve ancora imparar ad andare "a capo" come si deve! :gia:
     
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    Ahahahah! Chiedo venia, l'impaginazione arriverà!

    Per tagliare la testa al toro: La V rovescia è una citazione al famoso mercenario italiano Giovanni Acuto, il cui simbolo era il medesimo ma a colori invertiti.
    Gli scudi sono quelli della milizia bretonniana per intenderci… Particolarità dei personaggi del racconto è infatti che tutti (o quasi) esistono in versione pupazzesca.
    La sfida era invece una vera e propria citazione del gioco di miniature.

    Sgarri camminava tra le Asce Nere, oltre la metà dei quali erano sorretti dai compagni. Dietro di loro i caduti erano trasportati sui carri verso l’accampamento. Raimund arrivò sorridendo, brandiva ancora la scimitarra insanguinata ed aveva le tempie fasciate da una benda scarlatta. –Siamo invincibili!- Disse allegramente. Sgarri lo osservò un po’ interdetto, aveva visto cadere un terzo del reggimento e metà dei sopravvissuti era ferita, dov’era la vittoria? Ma Raimund sembrava felice del fatto che i suoi avessero dimostrato ancora una volta il loro valore. Mentre attraversavano il villaggio i kisleviti li guardavano silenziosi, poi una donna si colpì la mano sinistra con la destra. In pochi istanti l’applauso crebbe d’intensità e di volume, mentre gli abitanti ringraziavano con urla e fischi i salvatori del loro villaggio. Sgarri era spaesato; ovunque era stato la gente l’aveva solo visto come un ubriacone potenzialmente pericoloso per l’onore delle figlie, non come la persona che impediva al nemico di sgozzare la candida figlia. Si ritrovò a sorridere con aria ebete mentre una fanciulla biondissima gli gettava le braccia al collo e lo baciava su entrambe le guance.
    Era passata una settimana dall’attacco ed il nemico non s’era più visto. Le Asce Nere erano tornate all’originale numero di effettivi in pochissimo tempo, poiché un gran numero di veterani degli altri reggimenti aveva chiesto l’onore di essere arruolato e, dopo essere stati messi alla prova, molti erano stati accettati. Raimund chiese anche al tileano di entrare nel corpo, ma Sgarri declinò gentilmente l’offerta perché alle Asce Nere era richiesta una grande abilità con l’alabarda, loro arma favorita, mentre lui non amava le alabarde. Il reicklander insistette comunque perché il tileano si presentasse ad André Lemec, ma quando furono alla sua capanna i due scoprirono che il Bretonniano aveva lasciato il campo subito dopo la battaglia in compagnia di una decina dei suoi cavalieri migliori per ragioni personali e che nessuno sapeva quando sarebbe tornato. Così una mattina dal cielo plumbeo il tileano informò l’amico che intendeva partire. Raimund, seduto davanti al suo riparo si strinse nel mantello. –Dove pensi di andare?- Domandò il reicklander. Sgarri si strinse nelle spalle. –Non lo so, penso che cercherò di trovare un ingaggio ad Altdorf- Raimund quasi si strozzò con il liquore che stava trangugiando. –Altdorf?! Perché vuoi arruolarti con quelle femminucce?- Il tileano rispose un po’ a disagio –Vedi Raimund, come avrai notato non ho molti soldi… Anzi, per dirla tutta non ho neanche una moneta bucata, e vorrei tornare in Tilea a fare visita alla mia famiglia, per cui mi arruolo con i provinciali di Altdorf che pagano meglio di chiunque altro…- Raimund annuì –E laggiù difficilmente conoscono la storia di come sei stato sbattuto fuori dagli spadaccini imperiali- Il tileano sorrise e prese la borraccia dell’amico bevendone una robusta sorsata. Raimund annuì lentamente –Avrai bisogno di fondi per un viaggio simile, come pensi di fare?- Sgarri volse lo sguardo al cielo basso –Pensavo di vendere il mio equipaggiamento; ai provinciali di Altdorf lo detraggono dal primo salario- Il reicklander si grattò la barba e riprese la borraccia con aria assorta. –Senti- Disse –Ho bisogno di teste d’alabarda e corazze per il mio reggimento, pensavo di pagare un messo per portare l’ordine e la promessa di pagamento al nostro fabbro di fiducia, ma il viaggio è tutto via terra e sinceramente preferisco affidare il messaggio ad un soldato esperto e che conosce bene il territorio, quindi senti un po’, io ti do un cavallo, provviste e vettovaglie per il viaggio, tu consegni il messaggio, poi vendi il cavallo e ti paghi il viaggio via fiume fino ad Altdorf- Sgarri annuì interessato; non gli era mai piaciuta l’idea di vendere il suo vecchio e solido equipaggiamento e questa offerta gli offriva una valida alternativa. –Come mai dici uno che conosca il territorio?- Chiese all’amico –Raimund si strinse nelle spalle –Il nostro fabbro di fiducia si trova nel paese di Ulricland, vicino Middenehim, se non sbaglio si tratta della zona di foresta che pattugliavate abitualmente voi Lupi del Middenland- Sgarri annuì convinto –Altroché- Confermò –Ci sono passato decine di volte da Ulricland, la mia spada è stata forgiata proprio dal fabbro di quel paesino- -Bene, allora accetti?- Domandò Raimund. Il tileano sorrise, c’era forse bisogno di chiederlo? Il sergente s’alzò di scatto e lanciò pochi ordini secchi per farsi portare il necessario. –Non che voglia liberarmi di te, ma vorrei avere quei rifornimenti il prima possibile- Sgarri annuì e raccolse i suoi pochi averi. Quando passò davanti all’amico stringendo il mantello da norsmanno questi lo fermò. –Non scherziamo- Disse severamente –Prendi questo- Così dicendo gli porse uno dei pesanti mantelli delle Asce Nere, che riprendeva lo stemma del reggimento. Sgarri gli sorrise e lo ringraziò mentre, gettatosi sulle spalle il caldo indumento, prendeva le briglie del cavallo che era appena arrivato condotto da uno stalliere. Il tileano controllò provviste e vettovaglie che erano state agganciate alla sella, quindi balzò goffamente in groppa all’animale. Il reicklander salutò militarmente l’amico che rispose al saluto. –Non farti ammazzare, almeno non prima d’aver portato il messaggio al fabbro- Sgarri rise –E tu vedi di non annoiarti troppo quassù, ti vedo già con la pancia- Il tileano spronò ed il cavallo si mise in movimento, gli zoccoli che rimbombavano sul terreno gelato dell’accampamento. Proprio mentre passava sotto lo stendardo del reggimento Sgarri fu bloccato dalla sentinella. –Che c’è Waldo, cerchi problemi?- Chiese allegramente. L’alabardiere sorrise e gli porse una lunga daga. Il tileano la sfoderò e la contemplò attentamente. Era un’arma sottile ed affilata, ideale per infilarsi tra le giunture delle corazze, ma era anche abbastanza robusta per parare i colpi nemici. –Da parte di tutti i ragazzi- Spiegò Waldo –è stato un onore combattere al fianco di un teschio d’argento- Il tileano sorrise e ringraziò l’alabardiere, quindi i due si salutarono ed il tileano ripartì con la promessa di offrire da bere a tutto il reggimento. Sporadici fiocchi candidi avevano preso a cadere lenti quando il cavallo imboccò la strada del sud. Il tileano respirò a pieni polmoni l'aria fredda; era per questo che viveva, un abitato caotico e allegro alle spalle, il vento sulla faccia, una foresta sterminata all'orizzonte e che Ulric la mandi buona!
     
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    I'm in love with John Hawkwood :wub: certo sarebbe piaciuto sapere chi e perchè manteneva e pagava un esercito di mercenari in un misero villaggio ai confini del mondo e di kislev.
     
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    Ah, per il dispiacere di Jason che mi sopravvalutava… Si ho visto sia Troy che 300, anche se non sono particolarmente entusiasmato da nessuno dei due…
    (Se è per questo ho visto anche Annabelle, ma ho dormito per quasi tutto il film, avere degli amici con pessimi gusti cinematografici nuoce alla salute)
     
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    :disgustato:
    sei perdonato se elimini i tuoi amici.... oppure li spedisci stipendiati nelle fredde steppe della siberia a ricrear la tua saga! :asd:
     
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    Stipendiati?
     
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    oh beh.. per usare buone maniere :gia:
    ovviamente li paghi in un'unica soluzione al loro quantomai improbabile ritorno! :D
     
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    Ahahah!
    Rischio che tornino a casa prima di me se li abbandono in Siberia :D

    Lembi di nebbia si aggrappavano agli alberi dalle fronde basse, mentre un leggero nevischio continuava a scendere dal cielo candido. Il cavallo procedeva a fatica lungo un sentiero che esisteva solo nella memoria del cavaliere. Un cervo apparve per un istante alla destra del cavaliere e corse goffamente fino ad un punto più fitto della foresta. Sgarri imprecò mentalmente pensando che un arco avrebbe potuto risparmiargli un’altra cena a base di carne secca e gallette. Si strinse nel mantello e fissò lo sguardo sul sentiero che, oltre la nube di vapore delle sue narici, proseguiva per il Middenland. La barba rossa del tileano, lunga di una settimana, era coperta di cristalli di ghiaccio, al pari delle sopracciglia. Il cavallo sbuffò allarmato e Sgarri lo tranquillizzò con una pacca gentile sul collo. Un branco di lupi lo stava seguendo da tre giorni, ogni tanto uno si faceva più ardito ed avanzava fino a dove il cavallo lo poteva fiutare, ma fino ad ora non avevano dato grossi fastidi. La luce stava rapidamente scemando e il tileano individuò un buon posto per un riparo. Balzò a terra con le gambe che dolevano per la lunga cavalcata e s’infilò in una specie di grotta formata dalle grandi fronde innevate di un abete. Con pochi colpi d’ascia il tileano si procurò fronde sufficienti a completare il riparo e dissellò il cavallo, mettendo al riparo i bagagli. Sgarri era un esperto della vita nei boschi, in effetti aveva fatto parte di una compagnia di spadaccini d’élite, specializzata nella caccia agli uomonibestia e che passava la maggior parte del suo tempo nella foresta. In pochi istanti il tileano aveva individuato alcuni rami che, riparati da altre fronde, erano rimasti asciutti e li tagliò. Scavando con un piede, liberò dagli aghi secchi larga parte del suo riparo e, al centro, in corrispondenza del buco che aveva lasciato nella copertura, scavò una piccola fossa che circondò di pietre. Il tileano posizionò con cura la legna, in modo che i rami più grandi stessero in piedi, quasi a formare una piccola capanna. Era il sistema migliore per ridurre al minimo il fumo prodotto dal bivacco, non che ci fosse una ragione particolare per nascondere la sua presenza; le profonde tracce nella neve erano così chiare che, anche al buio, avrebbe potuto seguirle perfino un bambino, era più una questione di abitudine. Sgarri staccò un ciuffo di muschio secco dal tronco dell’abete e lo usò come miccia. Con pochi colpi d’acciarino, il militare fece infiammare il muschio che poi mise nel mezzo del circolo di pietre. Pochi secondi dopo un allegro fuoco riscaldava l’ambiente. Il tileano condusse il cavallo al riparo sotto lo stesso abete, in modo che potesse riposare al riparo dalla neve e che allo stesso tempo facesse da sentinella. Per farlo stare caldo Sgarri lo coprì con una coperta, quindi rientrò nel suo riparo e bloccò l’entrata con una frasca. Il tileano si tolse il mantello e lo riempi di aghi secchi, creando così un morbido materasso che posizionò a debita distanza dal fuoco, quindi si sedette sulla sua coperta per isolarsi dal suolo e cominciò a scaldare la carne secca in un pentolino di ferro pieno di neve che aveva posato su una delle pietre del bivacco. Quell’aria leggermente fumosa ed il profumo di resina gli riportarono alla mente ricordi che gli fecero luccicare gli occhi. In un riparo molto simile, pochi anni prima, riposava accanto al fuoco con i suoi commilitoni. Ronald dalla barba nera, che intagliava un giocattolo per la figlia piccola da un ramo di larice, Marcus il biondo, che continuava ad affilare la spada strofinandola con la cote, Harry lo sfregiato che riparava lo scudo, bestemmiando sottovoce ad ogni colpo di martello, Fred il lungo, che suonava l’ocarina traendone le allegre note d’una canzone popolare che tutti accompagnavano a tratti, raccontando la storia del **** di Middenehim, che con dieci amanti s’innamorò della sua grassa moglie. E fuori l’urlo del vento. Una lacrima scese lentamente lungo il duro viso dello spadaccino. Sgarri recuperò la carne ammorbidita e bestemmiò sonoramente quando si scottò le dita. La carne faceva davvero schifo, ma lo scoppiettare allegro del fuoco riuscì a cambiare umore al militare, che si sdraiò sul giaciglio e, gettatasi sopra la coperta di lana, cominciò a canticchiare “Vi narro ora la storia di Pino, c’amava donne, giuoco e vino…” .
    Il tileano si destò alle prime luci dell’alba, sorprendentemente aveva dormito bene. I resti del suo fuoco erano coperti da un leggero strato di neve, entrata dal foro sul tetto. Sgarri aprì la porta del suo bivacco e si gettò il mantello in spalla, quindi si assicurò le armi alla cintura. Il cavallo aveva mangiato tutto il fieno che il tileano gli aveva lasciato, così sgarri cercò nella sella la tasca dei cereali e fece per dargliene una manciata, ma l’animale era troppo agitato. Sgarri cercò di calmarlo, ma il quadrupede non era per nulla incline a farsi sellare. Sgarri fissò il cielo candido che minacciava altra neve, quindi si rivolse al cavallo –Dai bello, dacci un taglio, adesso fatti sellare che poi ce ne andiamo di qui eh?- Ma l’animale nitriva e scalciava, così che il tileano dovette allontanarsi a distanza di sicurezza. Imprecando tra i denti il militare fece per avvicinarsi nuovamente all’animale quando, con la coda dell’occhio, individuò un leggero sbuffo di fumo. Un cittadino l’avrebbe scambiato per il riverbero della neve, ma Sgarri era nato e cresciuto in montagna ed aveva lavorato a lungo nella foresta; per lui era chiaramente lo sbuffo di vapore emesso dalle narici di un animale in corsa, troppo piccolo per essere un cavallo e troppo grosso per essere un gatto selvatico. Il militare si volse di scatto sguainando al contempo la spada. Un grosso lupo grigio si arrestò istantaneamente di fronte a lui. E cominciò a ringhiare piano. Il tileano imprecò; sperava che ai lupi sarebbe bastato il cervo che aveva visto e che avrebbero smesso di seguirlo, o che per lo meno non avessero il coraggio di attaccarlo. Invece, lentamente, tutto il branco lo circondò. Se avesse ucciso il cavallo probabilmente sarebbe riuscito a fuggire attraverso il branco, ma senza cavallo aveva poche possibilità di raggiungere la sua meta. Sgarri sguainò anche la daga e si preparò a subire un assalto. Il lupo che aveva di fronte era chiaramente il capo branco, per cui era il nemico da eliminare per primo, in modo che il resto del branco si scoraggiasse. Il militare mulinò la spada preparandosi ad attaccare, ma il lupo fu più rapido. Sgarri osservò spaventato gli occhi gialli del lupo e le sue zanne digrignate, si concentrò sul leggero rimbombo delle sue zampe in corsa e comprese. Lo avevano fregato, un altro lupo lo stava attaccando alle spalle, non c’era modo di uccidere entrambi. Con un ringhio risoluto Sgarri si preparò ad infilzare il capo branco, nella speranza che le ferite inflittegli dall’altro non gli avrebbero impedito di continuare a combattere. I lupi balzarono all’unisono e Sgarri si slanciò in avanti. Il tileano affondò la lama, che si conficcò fino all’elsa nel ventre del capo branco. L’impeto del grosso canide travolse l’uomo, che cadde all’indietro. Mentre cadeva supino nella neve, Sgarri vide l’altro lupo passargli sopra ed atterrare poco più avanti. Il militare pregò Ulric di richiamare i suoi servi e si preparò a difendersi dal secondo attacco, ma il lupo non si rialzò. Sgarri ci mise alcuni secondi ad accorgersi che l’animale era stato trapassato da parte a parte da una freccia. Con un balzo felino il tileano si rimise impiedi e passò la daga nella destra, pronto a combattere ancora, ma i lupi non sembravano intenzionati a proseguire. Una figura grigia e longilinea era appena apparsa nel cerchio di lupi e stava rivolgendo loro musicali parole in una lingua a Sgarri ignota. Pochi istanti dopo il branco fuggì. La misteriosa figura si avvicinò al lupo trafitto e posò l’arco, quindi chiuse gli occhi e recitò quella che sembrava una preghiera, sempre nella sua misteriosa lingua. Sgarri lo osservò un po’ interdetto; l’essere lasciava impronte leggere come quelle d’un bambino, pur essendo alto quanto lui. –Un elfo eh?- Disse il tileano –Beh, non esattamente l’essere che incontro con più piacere, ma grazie comunque- Così dicendo Sgarri porse la mano all’elfo. Questi annuì ma non strinse la mano all’uomo. Aveva gelidi occhi d’un azzurro metallico e capelli grigi, come tutti i suoi vestiti. Sembrava malato, era pallido come un morto e tremava leggermente. –Hai un foco?- Chiese in comune. Il tileano annuì ed aiutò l’altro ad alzarsi, quindi lo distese sugli aghi secchi che aveva usato come giaciglio quella notte e liberò dalla neve il bivacco. –Torno subito- disse uscendo alla ricerca di legname.
     
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    mmm un elfo malaticcio nelle foreste del middenheim...
     
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    Dopo alcuni minuti accanto al fuoco l’elfo si mise a sedere. Appariva ancora pallido ed emaciato, ma riusciva a parlare. –Cosa fa un elfo malato in mezzo alla foresta?- Domandò il tileano. L’elfo sospirò prima di rispondere –Sono solo ferita, niente di serio, ma noi elfi dei boschi siamo più deboli in inverno… E non è stato facile convincere quei lupi che tu e il tuo cavallo siete indigesti- Sgarri si grattò la nuca a disagio, non era mai stato un esperto nel trattare con gli elfi e, cosa ancor più imbarazzante, si era accorto che l’elfo era una femmina. –Che… Che cosa fai così lontano dalla tua foresta?- Domandò velocemente, quasi biascicando le parole. L’elfa aveva aperto il suo largo mantello mostrando una tunica grigia che rendeva evidente la sua femminilità. –Io non vivo più a Loren; ora sono una mercenaria- Sgarri non sapeva che gli elfi dei boschi avessero rappresentanti tra le lame al soldo, ma non ritenne opportuno farlo sapere alla sua esausta ospite, anche perché aveva appena notato una larga chiazza di sangue sul lato sinistro dell’addome dell’elfa. –Bisogna rifarti la fasciatura- Disse evitando di guardarla negli occhi, che dal grigio avevano rapidamente variato ad un verde scuro simile a quello degli aghi di abete. L’elfa sbuffò –So badare a me stessa, grazie, appena ne avrò la forza rimarginerò la ferita con la magia del mio popolo- Sgarri annuì poco convinto, non pensava che l’elfa fosse in grado di rimarginare del tutto la ferita, ma non osava dirlo; in fondo lei gli aveva appena salvato la vita. –Dove sei diretta?- Domandò invece. –Volfenburg, sono diretta a Volfenburg- Sgarri annuì, pensava che avrebbe dovuto offrirsi volontario per accompagnarla visto che mancava una settimana abbondante di cammino e lei era ferita. Ma l’elfa non gli diede il tempo di parlare –A cinque miglia in direzione Nord Est, in una radura con due alberi caduti, ho lasciato i miei bagagli. Li trovi sotto un piccolo abete, penso che dovresti prenderli se dobbiamo proseguire assieme- Il tileano stava per risponderle male, ma poi vide il viso longilineo contrarsi in una smorfia di dolore. Con un sospiro si gettò in spalla il pesante mantello delle Asce Nere, prese la borraccia, si mise in tasca alcune gallette ed uscì dal riparo. Controllò rapidamente la posizione del sole e individuò facilmente la direzione indicatagli dall’elfa. C’era molta neve verso Nord e Sgarri decise che avrebbe fatto prima ad andare a piedi piuttosto che a cercare un passaggio praticabile per il cavallo. Così indossò il cappuccio e si avviò con la neve a metà coscia. Faceva meno freddo del giorno prima, ma dopo poco più di un’ora prese a nevicare copiosamente. Il tileano si fermò un istante e mangiò un paio di gallette, quindi si colpì la guancia gelata con uno schiaffo; doveva stare attento, non poteva più procedere immerso nei suoi pensieri come aveva fatto fino a quel momento o si sarebbe perso nella nevicata. Si rimise in cammino facendo bene attenzione a dove deviava per evitare le impervietà del terreno. Ora che il sole era scomparso e che la nevicata aveva aumentato d’intensità la visibilità era ridotta a pochi metri e non era facile orientarsi. Dopo una ventina di minuti Sgarri si fermò e poggiò le mani sul tronco di un grosso larice. Le mani esperte dello spadaccino percorsero la dura corteccia in cerca di risposte che solo un uomo di montagna poteva comprendere. La quantità di muschio sui vari lati del tronco gli raccontò una storia di vento e gelo. Sgarri carezzò l’albero, quasi a ringraziarlo, quindi riprese il cammino piegando leggermente verso sinistra; si era infatti accorto di essere finito troppo a Sud rispetto alla direzione che si era prefissato. Proseguì per un periodo di tempo che non avrebbe saputo quantificare prima di individuare un leggero avvallamento nella neve. Doveva trattarsi del torrente che aveva superato il giorno prima, dunque doveva essere poco oltre la meta. Restava da vedere se fosse a Nord o a Sud rispetto alla radura indicata dall’elfa. Era inutile cercare tracce; lei era troppo leggera e la neve caduta troppa perché se ne potessero trovare. Tuttavia il tileano aveva servito per anni nei Lupi del Middenland, la cui mansione principale era la caccia agli uominibestia; una simile esperienza lo aveva reso abilissimo nella ricerca di qualunque segno di passaggio. Sgarri sbuffò e si mise all’opera. Cercava qualunque segno indicasse il passaggio della sua ospite; un rametto spezzato, un’impronta sotto le fronde di un abete, un lembo di mantello tra gli arbusti… Si aggirò attorno al letto del torrente in semicerchi sempre più ampi, per ore. Alla fine era stanco ed infreddolito, col naso che colava ed i piedi intirizziti, ma non aveva trovato nulla. Imprecando sottovoce il tileano riprese a cercare; non intendeva tornare sconfitto, era una questione di principio. E la sua ostinata perseveranza fu premiata. Sul letto di aghi morti ai piedi di un monumentale abete erano rimaste tre impronte quasi impercettibili. Sgarri sorrise, l’elfa si era fermata a salutare lo spirito dell’albero, il quale aveva preservato le tracce dalla neve. Il tileano poggiò una mano sul tronco dell’abete e lo ringraziò mentalmente, quindi decise di sedersi li all’asciutto e mangiare le rimanenti gallette. Lo spadaccino si concesse diversi minuti per tirare il fiato. Ripensò ai Lupi del Middenland, erano sempre preceduti dalle leggende sulla loro solidità ed incrollabile fede, tanto che un prete di Ulric li aveva definiti “Gli eletti del dio lupo”. Sgarri sorrise, il vero motivo per cui si battevano a quel modo era l’addestramento. Per diventare un Lupo era necessario superare un addestramento così duro che al confronto le battaglie più sanguinose sembravano normale amministrazione. La mente del tileano tornò al giorno della sua prova finale; alcuni cavalieri del lupo bianco l’avevano prelevato da un bordello e picchiato abbondantemente, quindi lo avevano bendato e legato mani e piedi. Poi lo avevano portato da qualche parte nella foresta, avevano gettato a terra chissà dove la sua spada, gli avevano fatto stringere un pugnale tra i denti e lo avevano gettato giù da cavallo mentre andavano al galoppo. Ci aveva messo mezza giornata solo per liberarsi ed altrettanto per ritrovare la spada. Per trovare la strada per Middenheim aveva impiegato quattro giorni. Era stato il quarto a tornare in caserma, però era l’unico che recava con se la testa di un centigor. –Beh Berto, ne hai passate di peggio nei Lupi, questa marcia non è niente- Si esortò il tileano mentre usciva dall’asciutto riparo. Dall’inclinazione dell’ultima impronta era facile dedurre la direzione di marcia, per cui Sgarri non trovò alcuna difficoltà nel seguire il cammino dell’elfa. La cosa positiva dell’abbondante nevicata era che non si rischiavano brutti incontri; neanche i demoni del caos avrebbero marciato con un simile tempo. Il tileano individuò una radura che poteva corrispondere alla descrizione della sua ospite, quindi si avvicinò al piccolo abete e prese a scavare nella neve con le mani intirizzite. Con immensa gioia trovò uno zaino in materiali vegetali. Aveva alcune vettovaglie agganciate a varie corde ed una coperta avvolta legata in cima. Su un lato era appesa una lunga spada dall’elsa squisitamente decorata con un motivo a foglie di rampicanti dall’aspetto straordinariamente realistico. Quando viveva ancora al paese con la sua famiglia, Umberto si era anche dilettato nella scultura su legno, con risultati non proprio esaltanti, più per mancanza d’impegno che per assenza di talento. Questa sua predisposizione lo portava ad ammirare particolarmente i lavori d’intaglio che coprivano tutte le parti di legno presenti nel bagaglio. Sgarri slegò la coperta e se l’assicurò a tracolla, così da ripararla dalla nevicata col mantello. L’elfa aveva avuto l’accortezza di usare alcune frasche per coprire l’equipaggiamento, facendo si che il tutto si mantenesse asciutto. Lo zaino era piuttosto pesante e Sgarri capì perché lei se n’era liberata prima di correre in suo aiuto. Con uno sbuffo il tileano si mise in marcia. Aveva resistito alla tentazione di frugare nel bagaglio solo perché la luce stava rapidamente scemando e lui non aveva alcuna intenzione di farsi sorprendere dal buio. Nonostante il freddo intenso e la sfibrante marcia nella neve alta, il fatto di aver trovato il bagaglio aveva messo di buon umore Sgarri, il quale prese a darsi il passo cantando una delle sue amate canzoni da osteria. –Chi è che dice che il vino fa male, è tutta gente, è tutta gente… Chi è che dice che il vino fa male è tutta gente già nella tomba… Io ne ho bevuto tanto e non mi ha fatto male, l’acqua fa male, il vino fa cantar…-

    Il freddo si era fatto molto più intenso da quando era calato il buio e Sgarri aveva perso ogni residuo di buon umore. Da quasi un’ora camminava in cerchi sempre più larghi alla ricerca del suo riparo. Aveva abbandonato la direttrice di marcia per seguire quello che credeva essere un nitrito del suo cavallo, invece non aveva trovato ancora nulla e, con ogni probabilità, si era perso. Il tileano si strinse nel mantello e si forzò a proseguire. Nevicava ancora, anche se con meno intensità ed il cielo era invisibile, così che il buio formava una coltre quasi impenetrabile. Un mucchio di neve cadde da una fronda proprio sopra la torcia di Umberto. Lo spadaccino bestemmiò sonoramente Sigmar quando la luce svanì in un sibilo. Nel buio il tileano sentì alcuni scricchiolii e l’inconfondibile suono di passi nella neve. Con il cuore in gola si spostò di alcuni passi rispetto al punto dove aveva perso la fonte luminosa. L’ultima cosa che aveva visto era una radura, e lui non intendeva restarci. Avanzando a tentoni riuscì ad individuare il solido tronco di un albero, non avrebbe saputo dire di che albero si trattasse. Tendendo le orecchie il militare poggiò la schiena al tronco, così almeno non avrebbe potuto essere preso alle spalle. Il cuore gli martellava la bocca dello stomaco; i lupi ci vedevano benissimo al buio, mentre lui cominciava appena a distinguere le nere sagome degli alberi e temeva che la visione non sarebbe migliorata. Ancora passi, ma non era in grado di determinarne la direzione, l’unica cosa certa era che si avvicinavano. Cercando di ridurre al minimo i rumori, Sgarri impugnò la daga e la estrasse lentamente. I denti gli battevano all’impazzata, forse per il freddo o forse per la paura. Improvvisamente gli parve di cogliere delle voci, ma poteva anche essere un ramo che scricchiolava sotto il peso della neve. Involontariamente il tileano si abbassò, la daga stretta spasmodicamente nella destra gelata. Ancora passi, erano numerosi e goffi, troppo goffi per essere lupi e troppo rumorosi per essere orsi. Luci. La notte si era illuminata di quelle che sembravano decine di torce. Una creatura tozza e sgraziata apparve alla sinistra dello spadaccino reggendo un tizzone ardente. Si fermò e fece roteare attorno il fuoco, per esplorare il terreno. Sgarri nascose l’arma nel grande mantello e si rannicchiò contro l’albero, non aveva alcun desiderio di farsi scoprire da quell’essere. Quando l’esploratore grugnì soddisfatto e riportò la torcia in posizione normale una scintilla gli illuminò il grottesco volto. Una seconda creatura apparve pochi metri più a sinistra ed apostrofò la prima in una lingua sgraziata e brutale. Le petulanti voci dei due goblin si scambiarono quelle che Sgarri interpretò come informazioni, e poi una serie di quelle che avevano tutta l’aria di essere maledizioni. Spostandosi leggermente Sgarri fece scricchiolare un ramo. Il goblin appena arrivato smise subito di parlare ed indicò nella direzione del nascondiglio di Umberto, ma l’altro urlò qualcosa di poco educato in risposta. I due parevano molto alterati e Sgarri comprese che il nuovo arrivato desiderava controllare personalmente la zona, mentre il primo difendeva il suo operato e riteneva un insulto il desiderio del suo simile. I goblin si avvicinarono l’un l’altro e sembravano sul punto di picchiarsi quando apparvero altre torce. Un orco si fece avanti ed apostrofò i due esploratori, questi petularono qualcosa e lui li afferrò, uno per mano, e, sollevati da terra gli sventurati, li sbatté violentemente l’uno contro l’altro. L’orco lasciò cadere la coppia di animosi che gli sgattaiolarono via tra le gambe piagnucolando. L’incidente parve chiuso, perché i goblin riaccesero le torce, spentesi durante la colluttazione con l’orco, e ripresero a marciare sputandosi e rivolgendosi gesti sconci. L’orco rimase fermo per alcuni minuti fiutando l’aria, quindi diede un secco ordine e prese la direzione tracciata dagli esploratori, seguito da una torma di pelleverde. Sgarri ne contò una ventina, probabilmente una pattuglia. Il tileano riprese a respirare solo quando il barlume delle torce scomparve. Maledetti pelleverde, se lo avessero scoperto sarebbero stati guai seri. Riprese la marcia nella direzione dalla quale era venuto, poiché era contraria a quella presa dai pelleverde. Marciò per un tempo che non avrebbe saputo quantificare, poi qualcosa attirò la sua attenzione, sembrava il barlume di una torcia. Poteva trattarsi di una seconda pattuglia, tuttavia era il caso di andare a controllare. Lo spadaccino iniziò a muoversi con grande cautela, poiché il buio gli impediva in gran parte di vedere dove andava. Improvvisamente il lume scomparve. Sgarri continuò a marciare nella medesima direzione, la daga sempre stretta in pugno. Il tileano si chinò per passare sotto ad un albero inclinato che gli ostruiva la strada, la luce era riapparsa. Con sua stessa sorpresa il tileano la vide nuovamente scomparire appena superato l’ostacolo. Sempre più inquieto rallentò ulteriormente. Ormai doveva essere a poche decine di metri dal punto in cui aveva visto la luce e decise di avanzare carponi. La luce riapparve. Sgarri si rialzò e questa scomparve, quindi si acquattò e questa riapparve. Il tileano sorrise allegramente, aveva ritrovato la strada di casa; la luce filtrava da un buco nel muro di fronde del suo riparo. –Entra- disse una voce armoniosa dall’interno. Sgarri era esterrefatto; si era avvicinato così silenziosamente che neppure il suo cavallo aveva nitrito. Comunque ora era troppo stanco per occuparsi di queste cose ed entrò. L’elfa giaceva su un fianco ed appariva un po’ più in forze di quando l’aveva lasciata, tuttavia la ferita non appariva per nulla rimarginata. Sgarri le lasciò cadere vicino il bagaglio, quindi si sedette pesantemente a terra. Era stanchissimo ed il freddo gli entrava nelle ossa suggerendogli di dormire, ma lui sapeva che non aveva ancora il tempo di distendersi. Con fare stanco si liberò dei calzari fradici e dei pantaloni, quindi si spogliò anche della camicia su cui il sudore si era gelato e del mantello. Fortunatamente l’elfa aveva subito sostituito la coperta del tileano con la sua, quindi Sgarri poté riappropriarsene per coprirsi mentre faceva asciugare gli indumenti vicino al fuoco. Solo quando alzò lo sguardo dalla camicia stesa si accorse che l’elfa lo fissava con aria divertita. Lui la guardò interrogativo. –Succede sempre a voi uomini col freddo?- Domandò lei con voce musicale. Il tileano stava per formulare una domanda quando lei indicò con una risatina il suo inguine e lui capì. Immediatamente lo spadaccino imprecò e cercò di coprire l’evidente rigonfiamento della coperta con le mani, mentre le orecchie gli diventavano scarlatte per l’imbarazzo. –Temevo che i pelleverde ti avessero preso- Disse lei facendosi seria. Sgarri balbettava chiaramente a disagio, ma riuscì a risponderle –Li ho visti passare, ma loro non hanno visto me… Ma tu sapevi che pattugliano la foresta?- L’elfa annuì –Sono passati nei pressi del riparo poche ore fa, ma era ancora chiaro e il tuo cavallo è molto ubbidiente, per cui sono riuscita a non farmi scoprire, coperto com’è di neve questo riparo è praticamente invisibile di giorno, ma temo che di notte filtri la luce da qualche punto- Sgarri annuì e, ricordatosi della luce che lo aveva aiutato a ritrovare la strada, raccolse un sasso e tappò il buco da cui fuoriusciva il bagliore. Lei si strinse nelle spalle –Non basterà a nasconderci del tutto; i pelleverde mi hanno ferita molto più a Nord di qui, se stanno già pattugliando questa zona vuol dire che marciano velocemente e prima o poi mi troveranno- Il tileano la squadrò –Perché una tribù di orchi dovrebbe cercare proprio te? Con tutto il cibo che c’è in zona dovrebbero interessarsi a te che non sei neanche un granché come pasto?- L’elfa rise di una risata così cristallina da ricordare l’acqua sulle rocce. –Non lo so perché, ma ce l’hanno con me- Lo spadaccino era convinto che lei mentisse, era l’unica alternativa al decretarla pazza, eppure quella pattuglia marciava in condizioni proibitive e l’orco aveva sedato la lite tra i goblin invece che gettarsi nella gazzarra, questo non era un comportamento normale. –Cosa hai detto che vai a fare a Volfenburg?- Lei gli sorrise con una dolcezza che avrebbe sciolto un blocco di ghiaccio –Niente di male soldato, niente di male- Ciò detto l’elfa si coricò e parve appisolarsi immediatamente. Sgarri scosse la testa e si raggomitolò nella coperta. –Berto, sei un asino, ogni volta va a finire che ti fai fregare dalle femmine!- In pochi minuti il tileano si addormentò con un sorriso enorme stampato sul viso. Maledetto asino!
     
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    Si però se hai i pezzi già pronti smettiamola con sta tortura e postali che qui si odia l'attesa :D
     
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    Servo leale di Kilgore, unico vero Colonnello

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    per me vai troppo veloce! :nuuu:
    Sono rimasto indietro! :titto: ... complimenti vivissimi! :clap:
     
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    Ladruncolo di strada

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    Ahahah! Tranquilli ragazzi, i pezzi già pronti sono quasi finiti… Presto comincerà la tortura dell'attesa della scrittura in tempo reale :D In compenso i pezzi che scrivo al momento sono impaginati!

    Sgarri si svegliò con le gambe intorpidite, la fatica del giorno precedente non se n’era andata del tutto col sonno. I suoi abiti in compenso erano asciutti, l’elfa doveva essersi svegliata periodicamente per ravvivare il fuoco che ora scoppiettava allegro. Lei non c’era. Con uno sforzo immane il tileano si rivestì e sortì dal riparo. Sgarri orinò nei pressi di un larice, quindi si assicurò in vita il cinturone delle armi. Aveva smesso di nevicare e la foresta era rischiarata da una luce grigia. Lo spadaccino cominciò ad esplorare il terreno, ma le tracce dell’elfa si allontanavano dal riparo in direzione Nord e lui non aveva molta voglia di seguirle. Decise che avrebbe aspettato la sua ospite per un paio d’ore, mentre consumava una spartana colazione e preparava le vettovaglie per rimettersi in marcia. Lei aveva lasciato il bagaglio nel riparo, prendendo solo arco e spada, segno che intendeva tornare. Il cibo certo non gli mancava con i due lupi abbattuti, ma il foraggio per il cavallo cominciava a scarseggiare, doveva partire. Infine il tileano sospirò e prese per le briglie l'animale. Temeva che lei potesse aver avuto un calo di forze, ma non si decideva a cercarla. Con un sospiro montò in sella, quindi fece voltare la bestia verso Nord. Per quanto lei avesse fatto una cosa molto stupida non poteva abbandonarla. In realtà si, la conosceva appena ed era un’elfa, ma lui era troppo orgoglioso per abbandonarla al suo destino. Maledetto senso dell’onore, che sentimento fuori posto in un ubriacone tileano! Ma Sgarri non dovette procedere a lungo, il cavallo aveva fatto appena pochi passi quando lei apparve, spettrale come sempre. Portava la spada al fianco ed una faretra a tracolla, nella quale aveva trovato posto anche un lungo arco di legno lavorato. –I pelleverde stanno pattugliando il guado del torrente e, interrogando gli alberi, ho scoperto che hanno bloccato il sentiero più a Sud, sanno che siamo qui.- Lui la osservò attentamente, sembrava molto migliorata, anche se zoppicava leggermente. –Monta- Le ordinò scendendo da cavallo –Sei debole, è bene che sia tu a cavalcare- Lei lo fissò, gli occhi ridotti a fessure grigie –Stupido uomo, io non ho bisogno dell’aiuto di nessuno, cavalca tu che sei una creatura debole e pelosa!- Sgarri era stupito da un simile accesso di rabbia, ma si ricordò di quello che diceva sempre sua nonna “sta in guardia Umberto, che tutti gli elfi sono pazzi, ma quelli della foresta sono i più psicopatici!”. Saggia donna era sua nonna. Una delle ragioni per cui Umberto era scapolo, oltre al suo lavoro ovviamente, era che aveva una straordinaria capacità nel far infuriare le donne. Quando una donna lo insultava o aveva uno scatto d’ira, Umberto semplicemente si limitava ad un freddo commento, spesso sarcastico, e senza mai alzare la voce. Questa sua calma urtava terribilmente le donne della sua vita, comprese sua madre e la sua adorata sorella Annalisa a dirla tutta. Ancora una volta Sgarri dimostrò di essere in grado di far perdere le staffe a qualunque donna, di qualunque età e razza, l’unica a non aver mai dato in escandescenze con lui era la nonna paterna. Il tileano scese pacatamente da cavallo e mostrò i palmi delle mani in segno di resa. –Dammi il tuo bagaglio, non ha senso che lo porti quando posso legarlo alla sella- Non era una domanda e l’elfa fu sul punto di sguainare la spada tanto era arrabbiata, ma il suo viso contratto e la mano stretta all’elsa sembravano turbare il tileano quanto lo preoccupava la politica imperiale, ossia molto meno del suo stivale strappato. Lei fissò per alcuni lunghi istanti gli occhi scuri ed inespressivi di Sgarri, fissò il suo volto spigoloso ingentilito dai riccioli della barba rossa lunga di un paio di settimane, il naso che formava una leggera gobba là dove anni prima era stato rotto e le rughe della fronte, decisamente premature per la sua età. Umberto Sgarri, infatti, aveva solo ventisei anni, per quanto a vederlo affannato e coperto di barba e stracci potesse dimostrarne quaranta. A quattordici anni, sceso in paese per alcune commissioni, aveva perso tutti i soldi datigli dal padre con un baro alla taverna. Prima di giocare costui gli aveva offerto da bere e Sgarri, da ragazzino qual’era, si era subito ubriacato, non riuscendo più a capire dove mai finisse la biglia che il baro nascondeva sotto tre ciotole che poi mescolava. Quando si svegliò era steso in un letamaio, senza un soldo e senza il coltello che suo padre gli aveva regalato per il dodicesimo compleanno. Piuttosto che ripresentarsi a casa ed ammettere la sua stupidità, Umberto si era arruolato in un’unità di picchieri mercenari di passaggio. Ufficialmente doveva fare da sguattero, ma il capitano della compagnia, Diego Malatesta, lo aveva in simpatia ed aveva preso a dargli qualche lezione di scherma. Sgarri si era subito dimostrato uno spadaccino provetto, grazie alle lezioni ricevute sin dalla tenera età da suo padre che era stato uomo di spada del principato di Miragliano prima di ritirarsi in montagna per fare il boscaiolo, ma soprattutto grazie all’indole di Umberto, che lo portava sempre al centro della mischia. In pochi mesi ottenne armatura e picca. A seguito di un disastroso scontro con gli skaven nei pressi di Miragliano la gran parte dell’esercito del Malatesta fu sbaragliato e molti picchieri decisero di cercare fortuna tra le truppe provinciali dell’Impero. Così fece anche Umberto Garri che, per via della sua intolleranza alle rigide regole imperiali, fu ribattezzato dai compagni “Umberto Sgarri”. Inseguendo i ricordi Sgarri sorrise involontariamente e l’elfa lo interpretò come un ulteriore segno di disinteresse nei suoi confronti, anche perché il tileano stava fissando il cielo. In un istante tutta la furia della creatura silvana svanì e lei porse ad Umberto il bagaglio. Il tileano assicurò il tutto alla sella e, preso il cavallo per le briglie, si avviò fuori dal sentiero. L’elfa era troppo imbronciata per chiedergli dove stesse andando e, d’altronde, non poteva lasciarlo andare da solo, così gli si accodò, chiusa in un silenzio stizzoso. Il tileano non dubitava delle informazioni ricevute dalla compagna di viaggio, dunque si stava dirigendo verso un altro sentiero, più ad ovest rispetto a quello che aveva seguito in precedenza. Si trattava di una pista che portava a Volfenburg, ma proveniva da un villaggio vicino ai monti di mezzo, per cui non aveva senso che dei viaggiatori provenienti dal nord la percorressero. Non aveva quindi senso cercare viaggiatori provenienti da nord su quella pista, ed era su questo che si basava il piano del tileano. Un piano discretamente ben congegnato, non fosse che a sera, dopo aver camminato tutto il giorno in silenzio, la pista ancora non si vedeva. Il tileano si sedette nel riparo appena costruito e strofinò le mani tra loro per riscaldarsi. Maledetto paese, dove l’avevano nascosta quella dannata pista? I due viaggiatori cenarono ancora in silenzio, ma infine lei parlò. –Complimenti, sei riuscito a perderti- Lui la guardò interrogativo. –Se cercavi la pista per Volfenburg l’abbiamo superata tre ore fa- Spiegò l’elfa con un tono che a Sgarri ricordò terribilmente il capitano Tharnem. Umberto bestemmiò –Perché non me lo hai detto?!- -Non me lo hai chiesto, e poi non sei tu quello che sa tutto?- Il tileano era alterato, come l’elfa del resto. –Stupida gallina, credi che sia un gioco?! Quelli se ci trovano ci sgozzano!- -Chi ti credi di essere soldato per parlare così a me?!- -Ma se neanche so chi accidenti sei?!- -Io Sono Arys, guardavia del clan della felce scura!- -Ma dai?! Ed è costume di tutti i guardavia usare la testa solo come appoggio per il naso?!- L’elfa imprecò e sguainò la spada. Mentre la punta dell’arma si agitava minacciosamente davanti alla gola dello spadaccino, un silenzio glaciale piombò nel riparo. Il tileano abbandonò improvvisamente il tono belligerante e parlò con voce pacata, gelida e dura, come il rumore dello scalpello sulle pietre tombali. –Pensaci. So giudicare un guerriero e tu sei una brava combattente Arys di felcescura, ma io ho ucciso guerrieri che valevano dieci volte te e che non erano feriti. Io non sono nessuno, solo un umile soldato e non certo un nobile guardavia come te, ma sono pericoloso. Non lo scordare- C’era qualcosa di terribile nella voce del tileano, e non era la totale assenza di paura, sembrava così sicuro di quello che diceva da sembrare più pericoloso lui seduto con una spada alla gola, rispetto ad Arys, armata di fronte a lui. Per alcuni istanti calò il silenzio, poi lei parlò con una voce molto meno minacciosa di quanto avrebbe voluto. –Chi mi dice che tu non cercherai di vendermi ai pelleverde? Avrai capito ormai che chi mi cattura viene ricompensato principescamente- Lui sorrise, di un sorriso senza gioia, quello di un uomo che è divenuto tale molto prima del tempo. –Se volessi consegnarti ai pelleverde colpirei la tua spada con l’avambraccio, sfodererei la mia daga e ti taglierei la gola prima che tu possa anche solo maledirmi. Ma non è mia abitudine uccidere a sangue freddo, così come non è mia abitudine schierarmi con chi assolda i pelleverde. Non so quale sia la tua missione né m’interessa, ad essere sincero, ma ti porterò fino a Volfenburg, poi proseguirò per i miei affari. Per cui metti via la tua spada, elfa, e siediti a mangiare.- Lei lo scrutò per un lunghissimo istante, poi ripose l’arma e si sedette. –Ho fatto bene a correre in tuo soccorso, soldato, sei davvero in grado di portarmi fino a Volfenburg.- Umberto scosse la testa –Sapremo che ce l’ho fatta quando ci saremo.- Lei annuì. –Sei sicuro di non voler conoscere la natura della mia missione?- Umberto annuì –Sono curioso, ma so che ometteresti molte cose, come il motivo per cui i pelleverde ti danno la caccia e chi li paga. Non ho alcun interesse nel farmi raccontare una mezza verità.- Lei era molto stupita e lo osservò a lungo prima di replicare –Dimmi il tuo nome soldato, chi sei veramente?- Sgarri sorrise –Mi chiamo Umberto Sgarri e sono un soldato, niente nobili natali o cose affascinanti- Anche l’elfa sorrise, con aria stranamente saggia –Non ti sminuire Umberto Sgarri, forse non sei il più nobile o il più onesto degli uomini, ma sei un uomo e questa è una qualità rara- Sgarri meditò a lungo sulla risposta dell’elfa, prima di addormentarsi, ma alla fine si rispose che il problema più pressante era procurarsi un bel paio di stivali nuovi. Magari scamosciati, in caldo cuoio, foderati all’interno…

    I viaggiatori si svegliarono in un’alba scura e plumbea. La nebbia sembrava formare ragnatele enormi tra un albero e l’altro, riducendo la visibilità. L’elfa si occupò della colazione, il solito spartano insieme di gallette e carne secca, mentre Sgarri esplorava i dintorni. Il tileano si era infatti accorto che lei aveva molto patito la marcia forzata del giorno precedente e non voleva che si sforzasse in un giro di perlustrazione. Aveva quindi approfittato di un tipico clichè di Tilea, ovvero che se è presente una donna è lei a doversi occupare del cibo, per forzarla accanto al fuoco. Si era beccato un bel po’ di maledizioni e gli dei degli elfi probabilmente lo odiavano, ma almeno era riuscito a non farle fare sforzi. Percorse a ritroso alcuni chilometri, finché non giunse nei pressi di una radura. Due esploratori goblin erano accampati sotto un larice e stavano arrostendo una lepre. Sgarri procedette gattoni, avendo cura di non toccare nulla che potesse fare rumore tradendo la sua presenza. Con estenuante lentezza percorse il margine della radura, passando a meno di tre metri dai nemici, quindi riprese la marcia. Poche centinaia di metri più avanti trovò altri due esploratori, troppo occupati ad insultarsi tra loro per fare caso a lui. Maledetti bastardi, avevano trovato le loro tracce e stavano pattugliando l’area! Ma Sgarri era convinto che il grosso dei pelleverde fosse ancora indietro, il che gli permetteva di sgattaiolare tra le pattuglie e prendere la pista, poi tutto sarebbe dipeso dalla loro capacità di muoversi velocemente. Tornò rapidamente al campo, evitando abilmente gli esploratori, quindi espose il suo piano ad Arys. Lei annuiva in silenzio sbocconcellando una galletta. –Il problema- Disse lui addentando un pezzo di carne –è che dovremo abbandonare il cavallo, è impossibile passare non visti con un cavallo al seguito- Lei gli fece esporre tutto il piano, poi si alzò in silenzio e poggiò le mani sul tronco di un monumentale abete. Rimase così per diversi minuti, poi tornò a rivolgersi al tileano –C’è il letto di un torrente in secca più a Nord, gira attorno alle pattuglie nemiche e si ricongiunge alla pista per Volfenburg, è perfetto- Sgarri annuì –Ma chi ci dice che non sia presidiato?- Lei sbuffò con aria di sufficienza –Stupido uomo, sarai anche un grande guerriero, ma in quanto a cervello… Me l’hanno detto gli alberi che è sgombro, loro vedono tutto!- Sgarri si grattò la nuca –Va bene, se hai finito di prendermi per il naso possiamo anche metterci in marcia- Lei annuì disarmata, non c’era proprio gusto nel prenderlo in giro, era troppo mite, troppo calmo per risultare soddisfacente. Nei giorni passati assieme lui si era arrabbiato una sola volta ed una sola volta le aveva parlato con tono serio, altrimenti aveva sempre usato quel suo tono a metà tra l’uomo vissuto e la burla. I viaggiatori ripresero il cammino, non si curarono di nascondere i segni del loro passaggio; la loro era una sfida di rapidità. Il torrente in secca c’era veramente e, dopo quattro ore di marcia, con grande sollievo di Sgarri, si rivelò realmente una strada sicura per la pista, che lo traversava con un piccolo ponticello di legno. Sgarri tirò il cavallo su per la sponda innevata, mentre Arys balzava agilmente sul ponte. La zona era sgombra. Senza dire una parola ma con grande sollievo i due ripresero il viaggio, molto più velocemente ora che avevano un sentiero da seguire. A mezzodì si fermarono per mangiare, dei pelleverde nessuna traccia, tanto che Arys propose di fermarsi a riposare un poco, ma Sgarri rifiutò. Sapeva che lei aveva un disperato bisogno di riposare, ma aveva combattuto troppe guerre per commettere ancora l’errore di rilassarsi prima della fine della battaglia. Come diceva sempre il vecchio Diego Malatesta “gli unici picchieri che sono morti combattendo le pecore sono il picchiere Sereno ed il picchiere Tranquillo”. Così i due si rimisero in marcia. Lei era più pallida del solito e cominciava a zoppicare leggermente, il tileano chiese di poter vedere la ferita, ma ottenne uno sdegnoso rifiuto. Ormai le ombre della sera cominciavano a calare e Sgarri aguzzò la vista in cerca di un posto adatto a ripararsi. Per questo motivo si accorse immediatamente delle ombre che apparvero alla sua sinistra. Orchi. Lo spadaccino si era involontariamente rilassato durante la marcia ed impiegò alcuni secondi a comprendere la situazione. Il primo orco che aveva messo piede sulla pista aveva preso a guardarsi attorno allibito, mentre il secondo gli aveva rifilato uno schiaffone. In pochi istanti era scoppiata una discussione così animata da sembrare una rissa. Era evidente che la pattuglia aveva sbagliato strada nella foresta ed era capitata nel posto sbagliato. Furono istanti preziosi, che avrebbero permesso a Sgarri di mettere in salvo i suoi, non fosse che il tileano era troppo basito per fare qualsiasi cosa. Evidentemente la reazione dell’elfa doveva essere stata del tutto simile a quella dello spadaccino, perché rimasero entrambi piantati in mezzo alla pista. Il cavallo nitrì ed il suono distolse gli orchi dalla gazzarra. Finalmente videro i due viaggiatori che stavano cercando da giorni. Il lato positivo della semplice psicologia orchesca era che un orco era semplicemente troppo stupido per stupirsi, quindi i ragazzi si gettarono mulinando asce e zpakka contro i due viaggiatori. Le urla di guerra ruppero lo stupore di Sgarri che scattò come una molla; estrasse così rapidamente che spada e daga parvero materializzarsi tra le sue mani. Il primo avversario lo aggredì con violenza. La spada del tileano sprizzò scintille mentre deviava l’ascia nemica. L’orco tentò di colpire il fianco dello spadaccino con la zpakka che maneggiava con la destra, ma Sgarri interpose la sua daga. Con stessa sorpresa del tileano, la daga resse magnificamente l’urto. Sgarri aveva rinunciato da alcuni anni al sistema di combattimento tipicamente tileano della spada ed arma da parata, sostituendolo con il classico spada e scudo degli spadaccini imperiali, perché non riusciva a trovare una daga degna. Ora l’aveva. Lo spadaccino colpì l’inguine del nemico con una poderosa ginocchiata e gli piantò la daga nella gola. Senza perdere un istante si scostò e parò l’arma di un secondo aggressore. Arys si batteva con grazia e furore, maneggiando con perizia distruttiva la sua sottile spada che tracciava serpentine scintillanti. Era incredibilmente veloce e si batteva con spettacolari piroette. Sgarri mozzò la testa del nemico con un poderoso colpo a girare, quindi incrociò le sue lame per bloccare un colpo di zpakka, al quale replicò con un calcio al ginocchio del nuovo avversario. L’elfa spiccò un incredibile salto ed eseguì un salto mortale sopra la testa di un orco. Mentre girava si distese e gli piantò la spada dall’alto nel collo, fino a giungere al cuore. Era stato un istante, poi la lama tornò al suo posto ed Arys terminò la rotazione con le gambe attorno al collo di un secondo avversario. Sfruttando la forza degli addominali, lei roteò verso sinistra e rovesciò il nemico. L’elfa atterrò come una gatta e trafisse l’orco. Arys lanciò un terribile urlo di guerra che esprimeva furore ed odio, ma non ebbe il tempo di sollevare nuovamente l’arma perché un orco la colpì al ventre con la guardia della zpakka e lei si afflosciò come una foglia secca nel vento. Il tileano spaccò un ginocchio con un abile colpo di spada e, quasi contemporaneamente, sfruttò l’affilatissima daga per recidere le vene sul polso di un altro avversario. La situazione era senza uscita; per quanti ne potesse uccidere, gli orchi restavano troppo numerosi, non poteva affrontarne venti da solo. Sgarri roteò le armi con fare minaccioso, i nemici l’avevano circondato eppure nessuno sembrava intenzionato ad attaccare, per un attimo la terribile efficienza dello spadaccino aveva piegato perfino gli animi bellicosi dei pelleverde. Fu solo un attimo, poi due orchi partirono all’unisono. Sgarri roteò su se stesso usando le lame come schermo ed i nemici si scontrarono l’uno contro l’altro. Il tileano attaccò un avversario che si riparò con la zpakka, quindi iniziò a tempestarlo di colpi, costringendolo ad arretrare, infine un colpo circolare superò le difese del nemico e gli tagliò la gola. Lo spadaccino si voltò di scatto; l’orco più grosso che lui avesse mai visto lo sovrastava. Era un essere enorme che portava una maschera con due zanne delle dimensioni di un braccio umano. Era armato di un’ascia così grande che col solo peso avrebbe potuto schiantare lo spadaccino a terra. Sgarri imprecò, il nemico era così vicino che lui poteva sentirne il fiato puzzolente e così arrabbiato che il manico dell’ascia, spasmodicamente stretto dalle sue enormi mani, scricchiolava. Sgarri si sentì mancare il terreno sotto i piedi mentre un secondo orco lo aggrediva sul fianco. Improvvisamente questi si voltò e la sua testa, spiccata dal corpo, volò a diverse decine di metri di distanza. L’enorme orco dalle zanne sferrò un pugno verso le spalle di Sgarri ed un cavaliere in armatura cadde di sella rovinando nella neve. Cinque cavalieri bretonniani si erano gettati al galoppo nel mezzo della mischia mulinando le enormi spade. Il primo non portava la blusa multicolore degli altri, indossava invece una casacca nera che gli copriva un’armatura brunita. Anche la gualdrappa del cavallo era nera, probabilmente un tempo aveva recato dei simboli, ma ora erano troppo infangati per essere riconoscibili. Quasi a voler sottolineare la sua già cupa figura, il cavaliere aveva scelto un destriero nero come la notte. Il cavaliere nero colpì subito Sgarri perché, invece che battersi in sella come i suoi compagni, si gettò da cavallo, travolgendo un orco. Il bretonniano si voltò roteando la spada bastarda e decapitò un orco. La spada del cavaliere sprizzò scintille nel parare un’ascia, poi con un movimento incredibilmente rapido, roteò e mozzò la mano che la reggeva. Con il colpo di ritorno, dal basso in alto, il cavaliere sfondò il cranio dell’orco –Crepa bastardo!- Ringhiò in bretonniano. Un ennesimo orco tentò di colpirlo alle spalle, ma il bretonniano roteò la spada in modo che la lama gli passasse accanto al busto, rivolta all’indietro. Con una mossa repentina il cavaliere infilzò il nemico, affondandogli la spada nel ventre fino all’elsa. L’orco dalle zanne, evidentemente il capo della fazione, balzò ruggendo verso il cavaliere nero. Sgarri conosceva molto bene il bretonniano, poiché nel suo paese d’origine, all’estremo confine Nord del principato di Tobaro, era molto più usato del tileano. Non gli fu quindi difficile comprendere l’urlo di uno dei cavalieri –Attento signor Conte!- Il tileano era stupito; il cavaliere nero portava i capelli castani incolti e lunghi fino alle spalle, la sua barba era più lunga sul mento ed in corrispondenza dei baffi, segno che solitamente la curava, ma ora era lunga di diversi giorni, inoltre era quello vestito in modo più spartano in tutto il gruppo, proprio non aveva l’aria del conte. Il cavaliere nero balzò indietro e sfoderò una daga da duellista. Sgarri aveva notato che il conte non portava gli schinieri e le scarpe di ferro tipici dei cavalieri, bensì un semplice paio di stivali a sbuffo. Evidentemente era più avvezzo a battersi a piedi piuttosto che in sella. Il capo orco fece per attaccare il bretonniano, ma fu preceduto dall’ultimo superstite della pattuglia pelleverde. –Signor Conte!- Gridò nuovamente il cavaliere che aveva precedentemente avvertito il nobile. Ma il cavaliere nero aveva già provveduto –Tienimi questa!- Urlò all’orco che lo attaccava di lato mentre gli lanciava una rapida occhiata. Nel dire questo lanciò la daga che roteò due volte in aria e si piantò fino all’elsa, con precisione chirurgica, nella gola dell’avversario. Il capo calò l’enorme ascia, ma il bretonniano roteò su se stesso e deviò l’arma colpendo col proprio avambraccio gli avambracci dell’orco. L’arma si schiantò a terra sollevando un’enorme sbuffo di neve. L’orco imprecò selvaggiamente e menò un formidabile colpo circolare. –Troppo lento- Lo canzonò il cavaliere mentre schivava di scarsa misura l’attacco. Il mostro vibrò un potentissimo colpo di ritorno, ma il bretonniano allargò le braccia e spinse indietro la testa. –Dovresti gestire meglio la tua rabbia- Canticchiò mentre l’ascia gli passava a tre dita dal mento. Un nuovo colpo dall’alto venne nuovamente deviato dall’avambraccio del conte. –Magari farci qualcosa di costruttivo- Continuò il cavaliere rifilando un temibile sinistro nelle costole dell’orco. Il pelleverde bloccò l’avversario contro il proprio petto, tentando al contempo di strangolarlo con il manico dell’ascia. –Conoscevo un tale che intagliava il legno per rilassare…- Il manico di legno soffocò la battuta del cavaliere, che afferrò con entrambe le mani l’ascia, quindi si lasciò cadere in ginocchio, imprimendo un movimento rotatorio all’asse del suo corpo. Il movimento rovesciò l’enorme orco che si ritrovò improvvisamente a guardare il nemico da supino. Con una sorprendente prontezza di riflessi il pelleverde si rialzò e vibrò un fendente. Il bretonniano si avvicinò al nemico e si voltò di spalle in modo che il colpo passasse oltre ed il gomito nemico sbattesse sullo spallaccio di ferro dell’armatura. Rapidamente il bretonniano bloccò il braccio dell’orco e sfruttò lo spallaccio come leva. Il secco rumore dell’articolazione fratturata riecheggiò nella foresta. L’orco urlò di dolore ed il cavaliere gli rifilò una gomitata che fratturò diversi denti. Il mostro cadde supino. –Spada!- Ringhiò il conte. Immediatamente un cavaliere gli scagliò la propria arma. Il cavaliere nero prese l’arma al volo e le impresse la rotazione necessaria a piantarla di punta nel corpo del nemico a terra. Un solo colpo, diritto al cuore. Il mostro gorgogliò e si afflosciò. Un silenzio irreale era caduto sulla foresta. Il conte estrasse l’arma dal cadavere e la restituì al legittimo proprietario, quindi si diresse verso i resti degli orchi che custodivano le sue armi. Il cavaliere disarcionato era tornato in sella e sembrava stare bene. Quando ebbe terminato le operazioni di recupero e pulizia sommaria delle armi, il conte rimontò in sella e si rivolse a Sgarri. –Sembra che vi abbiamo tirato fuori da un bel pasticcio eh soldato?- Sgarri annuì –Così sembra eccellenza- Il Bretonniano sembrò riflettere tra se –Non ti inchini soldato?- -Sono stanco eccellenza, ho combattuto a lungo in questi mesi e temo che inchinarmi sarebbe troppo gravoso per la mia schiena- Il bretonniano scoppiò a ridere –Sarebbe molto più gravoso per il tuo orgoglio; a quanto ho visto la forza della tua schiena è più che sufficiente a massacrare orchi! Mi piaci soldato, un uomo che affronta da solo una simile banda è un perfetto ****, ma anche una persona che non deve inchinarsi di fronte a nessuno. Di dove sei?- -Vengo dal contado di Callan, eccellenza, nel principato di Tobaro… Non credo possiate conoscerlo- Il bretonniano rise –Certo che lo conosco soldato, io sono il conte di Annevie- Ciò detto il conte fece un gesto eloquente ed i cavalieri ripartirono al trotto nella direzione dalla quale Sgarri arrivava. –Che Mirmidia ti conceda una buona giornata valdasitano!- Gridò il conte. –Che la Dama benedica il vostro cammino eccellenza!- Gridò di rimando lo spadaccino. Il paese natale di Sgarri si trovava nella Val d’Asita, una regione al confine con Bretonnia e che confinava appunto con il contado di Annevie. Il tileano sapeva che il conte era vecchio e malato, ma non era a conoscenza di un erede, forse si trattava di un nuovo conte nominato dal duca.
     
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