| Manco il tempo di dirlo, ecco già il secondo racconto.
Ho pensato fosse il caso di cambiare il titolo del thread, sperando ne scriva altri.
Kurt crollò sotto i colpì dell’ennesima scarica aliena. L’armatura perforata in più punti, pennacchi neri si alzavano dai punti di impatto. Una parte della mente di Ghert ne contò quattro, una rosa astratta, quasi al centro dell’Aquila Imperiale. Dal profondo sentiva il dolore e la rabbia mescolarsi, come gli elementi di una reazione chimica instabile. Voleva caricare, punire, vendicare. Voleva uccidere. Ma sapeva che doveva stare calmo, senza cedere alla furia. Prese copertura dietro una lastra di marmo che era stata la parte dell’altare. Quella cappella votiva era andata. Il perimetro, la sua squadra e forse il pianeta erano andati. Era l’ultimo della sua unità, negli auricolari del casco, sulla frequenza generale, le comunicazioni si facevano sempre più concitate, confuse, brevi. Spesso si interrompevano di colpo, portando il suono di un’esplosione o di una raffica. Poi la voce riprendeva a chiedere rinforzi. O taceva per sempre. Gli Astartes incitavano a resistere saldi. Le Sorelle intonavano inni. Un coro sempre più debole, ripetuto da sempre meno voci. I soldati della Guardia chiedevano il fuoco di supporto…o urlavano di orrore terminale. Qualcuno prese a pregare. Il Cantico del Martire. La preghiera da recitare quando tutto era finito. L’indice sinistro premette il tasto di sgancio del caricatore, mentre la mano destra andava a cercarne un altro. Un guerriero mancino, era sempre stato considerato come una particolarità. La giberna a destra era vuota, passò al fianco sinistro, mentre proiettili alieni andavano a schiantarsi sul muro alle spalle. Trovò il caricatore, lo inserì, armò il fucile. Preciso, veloce e pulito. Decenni di pratica ed un controllo assoluto all’opera. Era l’ultimo caricatore. L’ultimo in assoluto. Stava per cambiare posizione, prima di aprire il fuoco, quando qualcosa attirò la sua attenzione. Fino a poche ore prima la chiesa era gremita di profughi, il pavimento ora era costellato delle cose abbandonate quando aveva compreso che il luogo non era sicuro. Su quel mondo non vi era più un luogo sicuro per loro. Fra le scarpe, i libri, le banconote, i viveri ad attirare la sua attenzione fu una bambola. Piccola, di pezza, rossa, un aquila imperiale dorata sul petto. Un pezzo di metallo al posto del visore, un’asta di plastica a fare da fucile. L’addestramento suggeriva “Angelo Sanguinario o Minotauro”, l’orgoglio gli diceva “capitoli leali, ma noi siamo meglio.” Uno Space Marine di pezza, di quelli che le mamme cucivano ai figli, per tenere a bada i mostri sotto al letto. Il tempo si contorse, lo spazio si curvò. Come durante un teletrasporto o un ingresso warp. Ma avveniva solo nella sua mente. 200 Anni prima, Arcadia Secondo. Casa, la sua prima casa. Sua sorella Segesta che gioca con una bambola simile, la vigilia del giorno dell’Ascensione Imperiale, nel cuore dell’inverno. “Ghert, tu pensi che gli Astartes ci vengono a salvare, se ci serve.” “Certo, l’Imperatore li manda a proteggere tutti i suoi leali sudditi, lo dice sempre mamma. Adesso dormi.” “Non ho sonno, ho paura…posso dormire con te?” “Si, ma poi dormi.” La sorellina era la metà di lui, ma nel sonno rubava le coperte e calciava come un grox. Ghert odiava svegliarsi infreddolito e coi lividi, ma era sua sorella minore. Ed aveva paura. Segesta aveva sempre avuto paura, la notte. Da quando papà non era tornato dalla miniera, era andata anche peggio. Disperso. Da 4 settimane. “Ghert, ma se gli Astartes non vengono…” “Certo che vengono, dormi, domani lavoro”. La pulizia dei sistemi di riciclo non era un lavoro pericoloso, non come la maniera, ma nemmeno altrettanto pagato bene. Ed i colleghi non erano teneri con un orfano di 12 anni. “Va bene, ma se ritardano e ci sono i mostri…O i mutari…” “Mutanti, dormi”. “Si, ma se fanno tardi, tu mi proteggi?” Nella voce della bambina sentì un bisogno disperato di essere rassicurata. “Certo”, la strinse forte, cercò di assumere un tono sicuro, “Certo, sei mia sorella, ora dormi per favore.” “Allora tu sei come un Astartes.” Alla fine i mostri arrivarono su Arcadia Secondo, Orki, Arrivarono anche gli Astartes, ma tardi… Almeno per sua sorella e sua madre. Ghert prese il pupazzo, delicatamente, senza raschiare il pavimento coi guanti dell’armatura. Si era sempre vantato di poter tenere un uovo con un maglio senza romperlo. Ed era vero, aveva un controllo perfetto dell’armatura. Osservò da vicino il giocattolo, era davvero brutto, poi lo ripose nella tasca vuota del suo ultimo caricatore. C’erano ancora navi da evacuazione allo spazio porto, i profughi potevano ancora farcela, se qualcuno dava loro tempo. Magari la bambina che aveva perso il pupazzo ce la poteva fare. In fondo gli Astartes erano già arrivati, questa volta. Abbandonò i resti dell’altare ed avanzò correndo verso il nemico. Icone comparvero attorno ai bersagli: numero contatti, razza, distanza, velocità, vettore di avanzamento. 5 Rak’Gol, fra i 15 ed i 20 metri di distanza, in avanzamento lungo la navata del tempio. Sibilavano e sparavano, assetati di sangue. La loro mera presenza in quel luogo, su quel mondo, nella Galassia stessa, era una bestemmia per Ghert. La sua mente suddivise la cappella in aree. Aree di interdizione, coperture, linee di avanzamento. 188 Anni guerra condensati in un momento. La voce del suo mentore gli risuonava nella mente: “Se ti troverai alla resa dei conti, novizio, quando arriverai a quel momento, non esitare. Quando il nemico sarà in superiorità, sicuro di vincere, attaccalo. Non se lo aspetterà, chiudi la distanza, alterna il fuoco al movimento. Lo stupore diviene paura, la paura ti da tempo. Tempo per chiudere la distanza. Tempo per la lama, per il furore. Tempo per fargli pagare il conto salato della tua vita.” Si mosse verso il colonnato di destra, sparando due raffiche di 3 colpi ciascuna. Un alieno si contorse mentre la sua spalla si disintegrava, il secondo ebbe la testa distrutta. Il corpo continuò ad avanzare, mentre nello spasmo finale, tirava il grilletto. Un terzo compare assorbì tutta la raffica. Prendendo copertura dietro una colonna, lo space marine lanciò una granata verso i superstiti. I colpi delle armi xenox presero a tormentare la colonna, impatti concentrati e rapidi. “Bravi combattenti”, glielo doveva concedere. La granata esplose, pezzi di alieno ed icore lo raggiunsero. Estrasse la lama, mentre agganciava il requiem alla cintura. “Grande cosa la magnetizzazione delle armi”, lo pensava ogni volta. Il superstite del gruppo era stordito, ferito e senza l’ arma. Ma si volse verso di lui e lo caricò, le zampe artigliate protese in avanti. “Buoni combattenti, sanno morire.” Riconobbe ancora Ghert. Poi stritolò la mano destra del suo avversario, conficcandogli la lama dentro la cassa toracica. Con la sinistra, l’alieno gli lasciò 4 lunghi strappi nella tunica che ricopriva il pettorale. Lasciò lo xenos alla sua agonia, si volse verso l’entrata, altri mostri si affacciavano. Alle loro spalle, la luce degli incendi colorava tutto di rosso. Ghert vide il corpo di fratello Manfred, il sergente. Ne afferrò la spada a catena, attivò la lama. La catena prese a ronzare minacciosa. Caricò il nemico. Avrebbe dovuto urlare “Per l’Imperatore!”, l’aveva fatto centinaia di volte prima e non l’avrebbe potuto fare un’altra. Avrebbe dovuto urlare “Nessuna pietà! Nessun rimorso! Nessuna paura!” Mormorò il nome di sua sorella. L’ Imperatore avrebbe capito, o non sarebbe stato l’Imperatore. |
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